unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.36 del 12 novembre 2000

In rivolta contro l'apartheid
Noam Chomsky sull'intifada di Gerusalemme

Dopo tre settimane di guerra virtuale nei territori israeliani occupati, il primo ministro Ehud Barak ha annunciato un nuovo piano per determinare lo stato finale della regione. Durante queste settimane più di 100 palestinesi sono stati uccisi, tra cui 30 bambini, spesso a causa "dello spropositato uso delle armi letali in circostanze in cui non era in pericolo imminente né la vita delle forze di sicurezza, né di altri, determinando così delle uccisioni illegali", conclude Amnesty International in un dettagliato rapporto che è stato poco diffuso negli Stati Uniti. Il rapporto tra il numero dei morti palestinesi ed israeliani è 15 ad 1 e riflette la proporzione delle forze armate in campo. I dettagli del piano di Barak sono ancora sconosciuti, ma il quadro generale è quello conosciuto: viene confermata la "mappa finale" presentata congiuntamente da Stati Uniti ed Israele come base per i negoziati di Camp David falliti a luglio. Questo piano che rilancia le proposte già rifiutate negli anni precedenti, punta a una trasformazione dei territori occupati da Israele nel 1967 in cantoni; un meccanismo che garantisce che la terra sfruttabile e le risorse (soprattutto l'acqua) restino ben salde ed in misura quasi completa nelle mani dello stato d'Israele, mentre la popolazione è amministrata da una Autorità Palestinese (ANP) corrotta e brutale, che svolge il ruolo tradizionalmente assegnato ai collaboratori indigeni di molte conosciute potenze imperiali: la leadership nera dei bantustan sudafricani è l'esempio più ovviamente vicino. Nella West Bank, un cantone settentrionale includerà Nablus ed altre città palestinesi, uno centrale includerà Ramallah, uno meridionale circonderà Betlemme; Gerico rimarrà isolata. I palestinesi saranno tagliati fuori da Gerusalemme, il centro della loro vita. Un meccanismo simile verrà attuato a Gaza, con la regione costiera meridionale nelle mani di Israele, insieme al piccolo insediamento di Netzarim (centro di molte delle atrocità di questi giorni): questa è la scusa che garantirà una presenza costante e massiccia dell'esercito e strade che divideranno in due la Striscia al di sotto di Gaza. Queste proposte ufficializzano il processo dei massicci insediamenti ed il programma di costruzioni che Israele ha portato avanti grazie al munifico aiuto USA, addirittura con un aumento dell'energia dal momento in cui gli USA sono stati capaci di mettere in atto la loro versione del "processo di pace" dopo la guerra nel Golfo.

L'obiettivo dei negoziati era ottenere l'adesione ufficiale dell'ANP a questo progetto. Due mesi dopo il loro fallimento è iniziata l'attuale fase di violenza. Le tensioni, già alte, sono esplose quando il governo di Barak ha autorizzato la visita di Ariel Sharon, scortato da mille poliziotti ai luoghi santi della religione musulmana (la spianata di Al Aqsa a Gerusalemme) giovedì 28 settembre.

Sharon è il simbolo del terrore di stato israeliano e della sua aggressività, con un ricco carnet di atrocità che cominciano dal 1953. L'obiettivo annunciato di Sharon era di dimostrare la "sovranità ebrea" sul territorio di Al Aqsa, ma come riconosce l'esperto corrispondente Graham Usher, l'Intifada di Al Aqsa, come viene chiamata dai palestinesi, non è scoppiata a causa della visita di Sharon, ma grazie alla massiccia ed intimidatoria presenza poliziesca e militare che Barak ha introdotto nei giorni seguenti, i giorni delle preghiere. Come era prevedibile, questo ha portato agli scontri ed alla presenza di migliaia di persone fuori dalla moschea, lasciando sul terreno 7 palestinesi morti e 200 feriti. Quale che fosse lo scopo di Barak non poteva esserci un metodo migliore per costruire le basi delle scioccanti atrocità delle settimane seguenti. Lo stesso si può dire sui falliti negoziati, concentrati su Gerusalemme. Probabilmente il sociologo israeliano B. Killerming esagera quando scrive che la soluzione di questo problema "può essere raggiunta in cinque minuti", ma ha certamente ragione quando dice che "dal punto di vista della logica diplomatica è certamente il problema più facile da risolvere" (Ha'arezt, 4 ottobre 2000). È comprensibile che Clinton e Barak vogliano nascondere quello che stanno facendo nei territori occupati, che è molto importante. Ma perché Arafat è d'accordo? Forse perché riconosce che i vertici degli stati arabi ritengono i palestinesi un problema fastidioso, e pur avendo qualche difficoltà con gli insediamenti in stile Bantustan, non possono invece sorvolare sulla amministrazione dei luoghi santi per paura delle reazioni del proprio popolo. Niente può generare uno scontro con maggiore facilità di una problematica religiosa, uno scontro del tipo più sinistro, come hanno dimostrato le esperienze dei secoli. La principale innovazione del nuovo piano Barak è che i progetti degli Stati Uniti ed Israele devono essere imposti attraverso l'utilizzo della forza, anziché quello della diplomazia coercitiva, ed in modo brutale per punire le vittime che si rifiutano di arrendersi senza problemi. Gli schemi sono negli accordi di base di tipo informale del 1968 (il piano Allon), con le varianti proposte da ambedue i raggruppamenti politici (conservatori e laburisti), il piano Sharon, i piani governativi dei governi laburisti ed altri. È importante ricordare che queste politiche non sono solo state proposte, ma attuate con il sostegno degli USA. Questo aiuto è stato decisivo sin dal 1971, quando Washington ha abbandonato il progetto diplomatico sino a quel momento in auge (la risoluzione ONU n. 242), per portare avanti un rigetto unilaterale dei diritti palestinesi in tutti gli anni seguenti, fino a culminare negli "accordi di Oslo".

Poiché tutto ciò è sempre stato censurato negli USA ci vuole un po' di lavoro per portarlo alla luce. Ma i fatti essenziali non sono controversi, sono solo nascosti. Come già evidenziato, il piano di Barak è una versione particolarmente brutale del ben conosciuto rifiuto statunitense-israeliano. Si basa sul taglio dell'elettricità, dell'acqua, delle telecomunicazioni e di altri servizi che vengono forniti in razioni misurate alla popolazione palestinese che oggi è virtualmente sotto assedio. Andrebbe ricordato che uno sviluppo autonomo ed indipendente è stato spietatamente impedito dal regime militare di occupazione del 1967, lasciando la popolazione in condizioni di assoluta indigenza e dipendenza, un processo che è considerevolmente peggiorato durante "gli accordi di Oslo". Una delle ragioni sono "le chiusure" regolarmente istituite, spesso brutalmente, dai governi laburisti più pacifisti. Come approfondito da un altro giornalista, Amira Hass, questa politica è stata iniziata dal governo Rabin "anni prima che Hamas avesse pianificato i suoi attacchi suicidi, perfezionata per anni, specialmente dalla istituzione della Autorità Nazionale Palestinese". Le chiusure sono un efficiente meccanismo di strangolamento e controllo, e sono state accompagnate dall'importazione di un prodotto essenziale per rimpiazzare la manodopera sfruttata e a basso costo, che è il sostegno dell'economia locale: centinaia di migliaia di immigranti illegali da tutto il mondo, molti vittime delle riforme "neoliberali" dei recenti anni di "globalizzazione". Questi lavoratori che sopravvivono in miseria e senza diritti sono regolarmente descritti come forza lavoro in schiavitù dalla stampa israeliana. Le proposte attuali del governo Barak sono di estendere questo programma di importazione in modo da ridurre in modo sempre maggiore le prospettive anche solo di mera sopravvivenza dei palestinesi. L'ostacolo maggiore al programma è interno: è l'opposizione del capitalismo israeliano, che confida su un mercato palestinese "prigioniero" da circa 2 miliardi e mezzo di dollari di esportazione ed ha "legami consolidati con i servizi palestinesi" e con i consiglieri economici di Arafat "che gli consentono di costruire delle situazioni di monopolio con il consenso ufficiale dell'ANP" (Financial Time, 22 ottobre 2000, New York Time, stesso giorno). Questo stesso capitalismo che sperava che mettere in piedi zone industriali nei territori (sulla falsariga delle maquiladoras di proprietà mista al confine messicano), trasferendovi l'inquinamento e sfruttando una manodopera a basso costo in installazioni possedute dalle aziende israeliane e dalle élite palestinesi con reciproco profitto. Le nuove proposte di Barak sembrano più un avvertimento che un piano anche se sono la naturale estensione di quanto è avvenuto nel passato. Infatti nel momento della loro attuazione, estenderebbero il progetto di "trasferimento invisibile" che è stato sotterraneo per molti anni e che potrebbe definirsi in maniera più chiara "pulizia etnica" perché così la definiamo quando viene portata avanti da nemici ufficiali. Costringere la popolazione ad abbandonare le speranze e non offrirgli nessuna opportunità per un'esistenza che abbia un significato la costringe ad andarsene, se solo ha la possibilità di farlo. I piani, che hanno le radici nei tradizionali obiettivi del movimento sionista in tutte le sue frange ideologiche dalle sue origini, furono articolati nelle discussioni dei governi israeliani nel 1948, mentre la completa pulizia etnica era sotterranea. La loro aspettativa era che i rifugiati "sarebbero stati schiacciati" e "sarebbero morti", mentre "molti di loro sarebbero diventati rifiuti umani ai margini della società ed avrebbero raggiunto le classi più povere dei paesi arabi". Gli attuali piani, anche se imposti da una diplomazia coercitiva, o da una forza visibile, hanno gli stessi obiettivi. Non sono irrealizzabili se possono appoggiarsi al potere che domina il mondo e alle sue classi intellettuali.

La situazione attuale è descritta accuratamente da Amira Hass, sul più prestigioso quotidiano israeliano (Ha'arezt, 18 ottobre ). Sette anni dopo la dichiarazione dei principi del settembre 1993 che predice questo risultato per ognuno che avesse avuto voglia di vederlo, "Israele ha il controllo amministrativo e poliziesco" della maggior parte della West Bank e del 20% della Striscia di Gaza. Si è riusciti "a raddoppiare il numero dei coloni negli ultimi dieci anni, ad allargare gli insediamenti, a continuare la politica discriminatoria di taglio delle quote d'acqua per i tre milioni di palestinesi per impedire uno sviluppo palestinese nella maggior parte dell'area della West Bank e per costringere una intera nazione in aree limitate, imprigionate da una rete di strade passanti, utilizzabili dalla sola popolazione ebrea. Durante questi giorni di rigide restrizioni dei movimenti nella West Bank si può verificare con quanta attenzione ogni strada sia stata progettata: così 200.000 ebrei hanno libertà di movimento e circa 3 milioni di palestinesi sono chiusi nei loro bantustan finché non si piegheranno alle richieste israeliane. Il bagno di sangue che sta proseguendo da tre settimane è la naturale conseguenza di sette anni di menzogne e rinvii, così come la prima Intifada era la naturale conseguenza dell'occupazione diretta di Israele". Il programma di costruzione e di insediamenti prosegue, con l'aiuto americano, chiunque sia al potere. Il 18 di agosto Ha'arezt ha sottolineato che due governi - Rabin e Barak - avevano dichiarato che gli insediamenti erano "congelati", in accordo con l'immagine di colombe utilizzata dagli americani e da molta della sinistra israeliana. In realtà hanno utilizzato il "congelamento" per intensificare gli insediamenti, includendo benefici economici per la popolazione civile, garanzie automatiche per i coloni estremisti religiosi ed altri benefici che possono essere portati avanti con poche proteste mentre il minore dei due mali sembra prendere le decisioni, un esempio difficilmente conosciuto altrove. C'è un "congelamento e c'è la realtà", osservano i giornalisti. La realtà è che gli insediamenti nei territori occupati sono cresciuti 4 volte più velocemente della popolazione nelle città israeliane, e questo processo è continuato - forse in modo accelerato - sotto Barak. Gli insediamenti portano con sé grandi progetti infrastrutturali per integrare la maggior parte delle regioni nello stato di Israele, lasciando i palestinesi isolati, sulle "strade palestinesi" su cui si viaggia a proprio rischio e pericolo. Un altro giornalista famoso, Danny Rubinstein, dichiara che "i lettori dei giornali palestinesi hanno l'impressione (giusta) che l'attività negli insediamenti non si fermi mai. Israele continua a costruire, ad espandere e a rinforzare le colonie ebree nella West Bank e a Gaza. Israele si sta sempre appropriando di case e terre nelle aree oltre i confini del 1967, e certamente, questo a spese dei palestinesi, per limitarli, metterli nell'angolo, e poi buttarli fuori. In altre parole, l'obiettivo è possibilmente spogliarli delle loro terre e della loro capitale, Gerusalemme" (Ha'arezt 23 ottobre). I lettori della stampa israeliana, continua Rubinstein, sono ben protetti dalle notizie non buone, anche se non completamente. Negli USA è molto più importante per la popolazione rimanere nell'ignoranza, per ovvie ragioni: il programma economico e militare sta in piedi soprattutto sull'aiuto americano che è una politica impopolare e potrebbe diventarlo ancora di più se i suoi obiettivi venissero conosciuti. Come esempio, il 3 ottobre, dopo una settimana di combattimenti ed uccisioni, il corrispondente militare di Ha'arezt illustra "il più grande contratto per l'acquisizione di elicotteri militari da parte dell'Aviazione israeliana in un decennio". È un accordo con gli USA che esporteranno 35 elicotteri Blackhawk e parti di ricambio per circa 525 milioni di dollari e segue un accordo simile per aviogetti ed elicotteri di attacco Apache. Questi ultimi sono "i più moderni ed avanzati elicotteri d'attacco multimissione degli USA", come dichiara il Jerusalem Post. È interessante notare che quelli che hanno fatto il regalo non lo sanno. Una ricerca sui media americani ha riportato che la notizia era apparsa su Raleigh Press.

La vendita degli elicotteri è stata condannata da Amnesty International (il 19 ottobre) perché "questi elicotteri americani sono stati usati per violare i diritti umani dei palestinesi e degli arabi israeliani durante il recente conflitto nella regione".

Israele è stata condannata internazionalmente (con l'astensione americana ) per "eccessivo uso della forza" con una "reazione sproporzionata" alla violenza palestinese. Questo include anche una condanna rara da parte della Croce Rossa Internazionale specificamente per attacchi ad almeno 18 ambulanze della C.R.I (New York Time, 4 ottobre).

La risposta israeliana è che si tratta di una critica ingiusta ed a senso unico. La risposta è molto accurata. Israele sta utilizzando la dottrina ufficiale americana, meglio conosciuta come la "dottrina Powell" , anche se nella realtà ha radici più antiche che tornano indietro nel tempo: l'utilizzo della massima forza per rispondere alla benché minima offesa.

La dottrina ufficiale israeliana persegue: "il totale uso delle armi contro chiunque metta in pericolo delle vite, specialmente contro chiunque spari al nostro esercito o a persone israeliane"(il portavoce legale militare di Israele, Daniel Reisner, Financial Time 18 ottobre). Il completo uso della forza in un esercito moderno include carri armati, elicotteri, mitragliatrici, cecchini che abbiano come obiettivo i civili (spesso bambini). Un ufficiale americano ha dichiarato che la vendita di armi non include un contratto che impedisca "l'uso delle armi contro i civili". Lo stesso ufficiale dichiara che "comunque i missili anticarro e gli elicotteri di attacco non sono tradizionalmente considerati mezzi per il controllo delle manifestazioni" eccetto, ovviamente, per quelli abbastanza potenti da poterlo fare, soprattutto se possono utilizzare la protezione dell'ultima superpotenza. "Non possiamo criticare un ufficiale israeliano che richieda l'intervento di un elicottero armato perché le sue truppe sono sotto attacco", dichiara un ufficiale americano (Agenzia Deutsche Presse 3 ottobre); secondo questa logica queste macchine per uccidere dovrebbero essere consegnate in un flusso incessante. E non è sorprendente che uno stato cliente degli USA adotti gli standard della dottrina militare americana che ha lasciato su questi argomenti notevoli precedenti anche negli ultimi anni. Gli Usa ed Israele non sono i soli ad adottare questa dottrina, anche se talvolta viene condannata: specie nel caso di nemici che debbano essere distrutti. Un esempio recente è la risposta della Serbia, quando il suo territorio (e gli USA insistono che sia suo) è stato attaccato da guerriglieri con basi in Albania, uccidendo poliziotti e civili serbi e minacciando i civili, inclusi gli albanesi, con l'obiettivo largamente dichiarato di indurre una "risposta sproporzionata" che avrebbe fatto crescere l'indignazione degli occidentali e portato poi all'attacco militare NATO.

E al riguardo c'è una ricca documentazione americana, della NATO e di altri paesi occidentali, prodotta in gran parte nello sforzo di giustificare i bombardamenti. Se si ritengono queste fonti credibili, arriviamo a dire che la risposta serba - senza dubbio sproporzionata e criminale - non è comparabile con gli standard che determina la dottrina applicata dagli americani e dai loro clienti, incluso Israele. Sulla principale stampa britannica possiamo ultimamente leggere che "se i palestinesi fossero neri, Israele sarebbe oggi uno stato soggetto a sanzioni economiche e all'isolamento principalmente per azione degli USA. La sua politica ed i suoi insediamenti nella West Bank sarebbero visti come un sistema di apartheid in cui la popolazione indigena è costretta a vivere in una minima frazione del suo territorio, in "bantustan" auto-amministrati, con "i bianchi che monopolizzano il rifornimento idrico ed elettrico". E come la popolazione delle aree bianche del Sud Africa era costretta a vivere in suburbi sottosviluppati, così il trattamento degli arabi israeliani, da parte dello stato israeliano - visibilmente discriminante contro di loro nella politica abitativa e nel sistema di istruzione - sarebbe riconosciuto come altrettanto scandaloso" (Observer, Guardian, 15 ottobre).

Queste conclusioni non dovrebbero essere sorprendenti per quelli che hanno una visione non limitata dai paraocchi dottrinali imposti da molti altri.

L'obiettivo primario è quindi rimuovere questi paraocchi nelle nazioni più importanti.

Questo è il prerequisito per ogni reazione costruttiva contro la distruzione ed il caos montante già oggi terribile e con implicazioni di lungo termine che non sono piacevoli da osservare.

Noam Chomsky

Da Zmagazine del 25 ottobre, traduzione di Rosaria



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