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Da "Umanità Nova" n.36 del 12 novembre 2000
Dibattito
Sperimentare l'anarchia
L'atmosfera rilassata e piacevole dell'ultima giornata del recente campeggio
estivo in Versilia ha fatto da contesto ambientale ad una interessante
discussione a più voci innescata dalla traccia suggerita da Mimmo
Pucciarelli.
Muovendo da alcuni suoi lavori sull'immaginario dei compagni anarchici in
Francia, Mimmo ha richiamato l'attenzione sulla mutata composizione sociale del
nostro movimento, frutto della collocazione storico-materiale del nostro
continente rispetto alle divisioni di classe planetarie. Mimmo si è
pertanto chiesto se tale mutata composizione si rifletta o meno sul nostro
immaginario rivoluzionario, se il nostro immaginario rispecchi la "provenienza"
sociale dei vari compagni, colti secondo ampi segmenti di appartenenza di
classe, per così dire, e da questi temi è nato un dibattito
vivace e stimolante.
Non è mia intenzione riepilogare le tesi di Mimmo e le obiezioni
mossegli da alcuni compagni presenti. Mi limiterò a rilevare alcuni temi
di discussione che sono emersi, anche per via dell'assenza di urgenze o
scadenze immediate su cui confrontarsi. Il tutto potrà sembrare quindi
eccessivamente astratto, ma ritengo che, come tutta la nostra tradizione
occidentale del resto, l'astrattezza è la migliore spia della
concretezza, in quanto in essa si vengono a costruire gli ideali e le idee in
genere; ed è bene esplicitarla in maniera consapevole, soprattutto in
connessione con il posizionamento storico-materiale su scala globale - tema su
cui, si sarà notato, insisto particolarmente.
Quale idea hanno gli anarchici dell'anarchia, ossia dello stato d'anarchia
(inteso come condizione una volte liberati dal dominio)? Come sempre plurali.
Una prospettiva tenace arriva a identificarla con la felicità, peraltro
con la F maiuscola, una dimensione da eden sulla terra, senza autorità
trascendentale, e che si alimenta delle innumerevoli utopie dai Lumi ai giorni
nostri. L'egemonia di una passione (la ricerca di, il desiderio di) tra le
altre dovrebbe metterci in guardia, così come l'analogia con l'afflato
religioso. Inoltre, le territorializzazioni dell'utopia - formidabile come
fonte di ispirazione perenne e rilanciante - quando sono state storicamente
utilizzate come esperimento o addirittura come modello, nel migliore dei casi
sono naufragate, nel peggiore si sono ribaltate nel loro opposto: le
distopie.
Il ritmo di vita della passione è l'istante, non la stabilità,
tipica di una società, la quale è invece molto più banale
perché si tratta di allacciare e slacciare legami sociali molteplici, in
cui guai se non ci fosse posto per altre passioni vitali, alle quali questa
cultura dà i nomi (carichi di peso valutativo forse distorsivo) di
invidia, gelosia, altruismo, perfidia, bontà, voracità, al di qua
pertanto di ogni connotazione positiva o negativa, che è compito di una
dottrina morale o religiosa catturare per battezzarle secondo norma
discriminatoria: appunto ciò che è bene e ciò che è
male.
Ma se l'anarchia non è il paradiso terrestre, cosa è? Una
soluzione elegante, ateologica, immanente e non messianica, fa di essa uno dei
modelli sperimentabili di vita associata, sin dal presente, con questa
umanità nel bene e nel male, cioè senza necessità di una
mutazione antropologica in senso angelico cui si richiama, tra l'altro, la
gloriosa testata di questo giornale.
Se non si vuol ritenere che l'anarchia sia il capolinea di perfezione
dell'evoluzione storica dell'umanità - in epoca positivista lo si
è autorevolmente pensato, e oggi lo pensano gli apologeti del pensiero e
del pianeta unici sotto l'egida neoliberista e capitalista - allora la
soluzione di depurare il pensiero anarchico di altre connotazioni filosofiche,
antropologiche, etiche, relegandole caso mai a fatto privato, per sottolineare
soltanto l'aspetto sociale e politico, ha l'indubbio merito di eludere problemi
metafisici e metastorici per concentrarsi su ciò che è possibile
nell'immediato del presente (inteso come tempo generazionale, non dietro
l'angolo né palingenesi del sol dell'avvenire).
Tale soluzione ristretta sembra risolutiva, ma apre questioni non da poco, a
cominciare dal fatto che questo snellimento dell'idea sacrifica paradossalmente
ciò che di meglio hanno dato l'anarchismo e gli anarchici, cioè
una tensione etica, uno stile di vita e di pensare, un approccio al mondo
(ironico, dissacrante, umile) che non sempre il taglio socio-politico serba
fedelmente in sé, incrostato come è dalla politica della forza
che si prolunga nel gioco di strategie e tattiche organizzative.
Forse non si è riflettuto a sufficienza su come cambia la pratica
anarchica se l'anarchia è uno dei modelli sperimentabili di vita
associata, non il modello perfetto valido per tutti. Ci "offriamo" sul "mercato
degli ideali" (imperfetti) di società? Si corre il rischio di una deriva
liberaleggiante? E senza un criterio di verità logica che darebbe la
perfezione, quale arma persuasivo-retorica usare per argomentare la
"bontà" della nostra "offerta"? E come cavarcela in diatribe sulla
tolleranza civile e democratica tra "competitori" di diverse "offerte" (fair
play) in attesa del responso, della "scelta" della società?
E se la società non ha una metastoria, ma uomini e donne vanno presi per
quel che sono, senza vagheggiare una diversa ontologia, come cambiare le ruote
a un bolide in corsa permanente, visto che le cose cambiano a prescindere dalle
singole volontà progettuali (e ciò vale sia per noi che per gli
imprenditori, ad esempio; la trasformazione sociale eccede sempre la somma
delle volontà in conflitto, combinandosi con altre variabili
incontrollabili)?
L'umanità avrebbe il diritto di sperimentare l'anarchia come regola del
gioco, ossia come molteplicità di legami instabili da stipulare e
slacciare in continuazione. È ovvio che un regime instabile come quello
non istituzionalizzato sia più esposto a ricadute, deviazioni,
perdizioni. Questo è il conflitto politico, che non svanirebbe per
incanto l'indomani di un evento-soglia (detto rivoluzione), pur sempre
secondario rispetto a un processo di divenire-rivoluzionario che dovrà
toccare innanzitutto le pratiche di ciascuno di noi.
Giacché in questo caso, l'unica forma di "propaganda rivoluzionaria"
(espressione orribile!) concepibile per allargare l'istanza di sperimentazione
di una forma di vita che possa dar luogo a una società estensivamente
sempre più libertaria - senza alcun traguardo definitivo o finale da
raggiungere - non è la persuasione pur argomentata della retorica
scritta e orale (giornali, libri, volantini, comizi, ecc.), necessaria ma
insufficiente in maniera oggi drammatica; quanto invece una condivisione di
esperienze di pratiche libertarie che nei fatti associativi - i legami della
vita quotidiana: lavoro, salute, famiglia, affetti, educazione,
socialità, gioco, ecc. - sappia coniugare, da un lato,
conflittualità politica tesa alla non-istituzionalizzazione come metodo
e, dall'altro, progettualità di contenuto alternativa che sottragga i
fatti che compongono la vita associata da una loro territorializzazione
statuale, per situarla in una eterotopia libertaria parallela e pervasiva, come
esemplarità simbolica e concreta, sia pure per quell'attimo consentito
dai rapporti di forza vigenti.
Più che la dialettica antagonista, lo spiazzamento che sottrae
conflittualmente - e quindi libera, non acquisisce potere, se non sciogliendosi
da vincoli - diventa la bussola di approssimazione che ci guiderà nel
processo di mutazione sociale e politica, che non potrà non alimentarsi
dell'immaginario libertario prodotto non solo dai migliori cervelli della
civiltà (non necessariamente anarchici doc), ma anche dalla
creatività dei corpi in esperienza che si muovono senza bisogno di
cucirsi addosso una uniforme di identità; anzi, accettare e guidare la
nostra autotrasformazione nella sperimentazione significa attuare una
sottrazione disidentitaria, pur senza smarrire il filo della memoria né,
d'altronde, legarsi ad esso in maniera vincolante e tutto sommato ripetitiva e
acritica.
Salvo Vaccaro
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