Da "Umanità Nova" n.37 del 19 novembre 2000 Iraq, Bosnia, Kosovo: Bombardamenti radioattiviAlla fine di ottobre il Ministero dell'ambiente ha reso nota la mappa dei siti inquinati dai proiettili all'uranio sparati dall'aviazione americana durante la guerra del Kosovo. La notizia, ripresa con scarso rilievo dai media è invece estremamente importante perché dopo mesi di attesa finalmente è possibile avere per lo meno un'idea dei danni provocati dagli A-10 "Thundebolt", propagandati durante le settimane della guerra come i "tank killer", gli implacabili distruttori dei carri serbi nascosti nel Kosovo. La forza di questi aerei sta nei proiettili all'uranio sparati con una velocità impressionante (4200 colpi al minuto) dalla mitragliatrice GAU 8/A, uno dei "gioielli" creati dalla Gatling, l'azienda che nel 1833 aveva inventato la mitragliatrice. La mappa è un ulteriore tassello nella battaglia per scoprire il grado di rischio che corrono le disgraziate popolazioni kosovare e tutti coloro che oggi si trovano in quella martoriata regione. Se si pensa che questa mappa viene pubblicata a 18 mesi di distanza dalla fine della guerra ci si rende conto della difficoltà di conoscere la verità su questo aspetto della guerra.
IRAQ 1991: L'URANIO TORNA IN GUERRA Gli americani parlano malvolentieri delle armi all'uranio impoverito, un progetto che nasce alla metà degli anni '70 anche se il memorandum con il quale il Pentagono autorizzò l'utilizzazione di questo "scarto" è del 1979. Fin da allora i militari americani cercarono di tenere nascosto il carattere radioattivo e altamente tossico di queste armi. Utilizzate probabilmente in via sperimentale durante la breve guerra di Panama del 1989, le armi all'uranio hanno avuto il loro primo grande battesimo nella guerra del Golfo del 1991. Le armi all'uranio furono usate massicciamente ma il Pentagono ne parlò solo alla fine della guerra quando dovette ammettere che esse avevano colpito per sbaglio 29 carri armati provocando 37 morti e almeno una sessantina di feriti. Poiché i carri distrutti dovevano essere decontaminati e gli iracheni non possedevano armi di questo tipo l'U.S. Army fu costretto ad ammettere l'uso di armi Du (Depleted uranium - Uranio esaurito). Ma le informazioni si fermarono li. Nonostante tutte le polemiche sulla "sindrome del Golfo", cioè sull'insieme di sintomi più o meno gravi che hanno colpito un gran numero dei reduci americani e inglesi della guerra, il Pentagono non ha mai rivelato quanti proiettili, bombe e missili all'uranio siano stati sparati in Iraq e nel Kuwait. Le cifre che circolano sono solo delle stime più o meno ufficiose. Secondo l'U.S. Army Environmental Policy Institute gli aerei e i carri americani spararono oltre 940.000 proiettili all'uranio di piccolo calibro e più di 14.000 di calibro maggiore. Fonti americane legate agli ambienti pacifisti calcolano che almeno 300 tonnellate di uranio impoverito sarebbero ancora in Iraq (soprattutto nella regione di Bassora) e Kuwait sotto forma di polvere finissima.
UN EFFETTO COLLATERALE: LA SINDROME DEL GOLFO La prova sul campo riuscì benissimo - i proiettili sparati dai carri Abrams perforarono con facilità le corazze dei carri avversari, i missili Tomahawk distrussero silos blindati e bunker mentre le nuove corazze all'uranio di cui erano stati dotati i carri armati USA dimostrarono tutta la loro efficacia - ma non mancarono alcuni indesiderati "effetti collaterali". Infatti migliaia di militari americani vennero a contatto con le nuove armi senza usare alcuna precauzione. Negli anni seguenti un numero sempre crescente di reduci della guerra del Golfo ha accusato sintomatologie più o meno gravi che cominciarono ad essere accumulate nella definizione oggi tristemente famosa di "sindrome del Golfo". Il medico tedesco Gunther Siegwart-Horst, che si recò sui campi di battaglia immediatamente dopo la fine delle ostilità, notò come le malattie che caratterizzavano tanti reduci americani e inglesi erano le stesse che egli aveva rilevato fra le popolazioni irachene: leucemie, tumori, infezioni Herpes e Zoster, indebolimento del sistema immunitario che sviluppa malattie simili a quelle provocate dall'AIDS, nascite premature, malformazioni congenite. Naturalmente la Commissione d'inchiesta nominata dal presidente Clinton nel 1995 ha concluso i suoi lavori nel 1998 escludendo ogni possibile collegamento fra Du e "sindrome del Golfo". Rimane il fatto che secondo una stima del 1997 - riportata nel documentario girato nel 1998 dal regista Alberto D'Onofrio per la Rai - su 700.000 soldati americani impegnati nella guerra del Golfo almeno 50.000 sono affetti dalla "sindrome del Golfo". I morti sarebbero valutati fra i 5 e i 10.000, mentre il 76% dei familiari sarebbe stata contagiata. Il documentario, tenuto a lungo nei cassetti dell'emittente di Stato, rappresenta una cruda denuncia di come i soldati americani siano stati mandati allo sbaraglio dai loro capi che li hanno usati come vere e proprie cavie. Nel 1999 l'autorevole rivista scientifica inglese "The Lancer" pubblicava uno studio che comparava tre gruppi di militari, il primo era composto da reduci della guerra del Golfo, il secondo da militari impegnati in Bosnia e il terzo da militari che non avevano partecipato a nessuna delle due guerre. Lo studio arrivava alla conclusione che il gruppo dei reduci del Golfo presentava sintomi e malesseri solitamente inseriti fra quelli della "sindrome del Golfo" con maggior frequenza degli altri due gruppi. D'altra parte proprio l'Atomic Energy Authority, l'agenzia britannica per l'energia atomica, in un rapporto realizzato nel novembre 1991 e rivelato nel 1995, aveva sostenuto che l'uranio impoverito sparato dagli eserciti "alleati" nel Kuwait e in Iraq era sufficiente a causare "500.000 morti potenziali". Intanto nell'Iraq impoverito dalla guerra e dall'embargo i medici continuavano a constatare un numero anormalmente elevato di leucemie infantili, tumori fra gli adulti, nascite di bambini morti o mostruosamente malformati. Su questo tema si sono tenuti nel 1994 e nel 1998 due simposi internazionali, che hanno visto anche la partecipazione di reduci americani e inglesi, conclusisi con un appello per l'interdizione di queste armi.
SMALTIRE LE SCORIE RADIOATTIVE Gli effetti "collaterali" non impedirono al Pentagono di ritenere pienamente soddisfacente la prova delle armi al Du tanto che pochi mesi dopo la fine della guerra il Pentagono presentava un piano per acquistare 130.000 tonnellate di Du nel giro di dieci anni. Fra l'altro si trattava di un ottimo affare per il Pentagono, per le industrie belliche e per il Dipartimento per l'energia. Quest'ultimo infatti possiede, e non sa come smaltire, una massa enorme di uranio impoverito proveniente dalle centrali nucleari: forse 700/800.000 tonnellate, che si accrescono al ritmo di 30/40.000 tonnellate ogni anno. "Riciclare" questa massa di scorie in armi è dunque un modo comodo per risolvere almeno in parte l'annoso problema dello smaltimento dei residui nucleari. Comodo e conveniente per gli acquirenti (Pentagono e industrie belliche) visto che nel 1995 il valore dell'uranio impoverito era di appena mezzo dollaro al chilo! Praticamente niente. Cosi dopo la guerra del Golfo altri paesi si interessarono alle nuove armi: alcuni, Russia e Germania, con l'intenzione di fabbricarle, altri, Israele, Arabia Saudita, Egitto, Kuwait e Pakistan, interessati ad acquistarli dagli Stati Uniti ma anche da Gran Bretagna e Francia. I proiettili all'uranio furono sparati dai cacciabombardieri A-10 anche nella breve operazione della NATO contro i serbi di Bosnia dell'agosto-settembre 1995. Anche in questo caso la NATO pur ammettendo di aver usato proiettili all'uranio non ha mai voluto specificarne la quantità e gli obiettivi. Nell'agosto 1998 il presidente dell'Associazione dei serbi di Bosnia-Erzegovina in Jugoslavia, dottor Bogdan Jamedzija, riferì che medici specialisti avevano registrato un'alta incidenza di aborti spontanei, nascite premature e nascite di bambini morti in alcune zone della parte serba della Federazione bosniaca, sottoposta ai bombardamenti NATO del 1995. Nelle stesse zone gli esperti avevano notato una anomala mortalità fra il bestiame. Inoltre l'erba raccolta sul monte Romanija presentava una radioattività quasi doppia di quella accettata dagli organismi internazionali. Ma la denuncia cadde nel vuoto.
KOSOVO. UNA PICCOLA CHERNOBYL Durante la guerra del Kosovo, grande risalto fu dato all'intervento degli A-10 e degli elicotteri "Apache", fatti passare dalla propaganda NATO come armi decisive per piegare la resistenza dei serbi. Ora sappiamo che gli "Apache" furono usati poco mentre notevole è stato l'impiego degli A-10, partiti dalla base di Aviano. Solo dopo parecchi giorni i portavoce militari dell'Alleanza ammisero a denti stretti l'utilizzo di proiettili all'uranio ma sempre minimizzando. Dopo una breve ammissione fatta a Washington da un responsabile americano, solo il 17 aprile 1999 il portavoce militare della NATO, il generale italiano Marani, uno dei più beceri fra gli squallidi propagandisti che animavano i quotidiani "briefing", dichiarò che "proiettili anticarro con uranio esaurito sono stati usati dai piloti alleati contro le forze serbe in Kosovo", aggiungendo che questi proiettili "non comportano alcun rischio poiché hanno un livello di radioattività non superiore a quello di un orologio". In quei giorni le denunce dei pacifisti furono sommerse dalla propaganda guerrafondaia e dei proiettili al Du non si parlò più per diversi mesi anche se nel maggio, pochi giorni dopo la fine delle ostilità, il governo macedone annunciò di aver rilevato un aumento di 15 volte della radioattività lungo la frontiera con il Kosovo. Proprio a maggio la Balkans Tasck Force dell'UNEP, l'ufficio delle Nazioni Unite incaricato della protezione ambientale, inizia la sua indagine sulle conseguenze del conflitto del Kosovo sull'ambiente e sugli insediamenti umani. Nel suo rapporto finale, pubblicato ad ottobre, la Tasck Force evidenzia inquinamenti e contaminazioni in molte zone, richiamando la necessità della bonifica di vaste aree. Su una sola questione il rapporto non sa dare una risposta, quella dell'inquinamento provocato dai proiettili ad uranio impoverito. La NATO, infatti, non aveva fornito alcuna informazione sulla quantità dei proiettili sparati e sui loro obiettivi, considerandola di fatto "top secret". Il 14 ottobre il segretario dell'ONU, Kofi Annan, scrive al segretario generale dell'ONU, l'inglese Robertson, chiedendo notizie certe. Il 7 febbraio 2000, dopo quasi quattro mesi, Robertson risponde: la NATO ha sparato 31.000 proiettili, contenenti circa 10 tonnellate di uranio, in circa 100 missioni che avevano per obiettivo le zone di Pec, Klina, Przren. Immediatamente il responsabile fnlandese della tasck force dell'ONU fa sapere di aver bisogno di maggiori informazioni per studiare l'impatto sul territorio e le popolazioni e propone che le zone colpite siano chiaramente segnalate per vietarne l'accesso, specialmente ai bambini. Pare utile sottolineare che fra gli obiettivi dichiarati ci sono anche città e paesi e che nessuna delle proposte del responsabile ONU è stata accolta. Sempre a febbraio viene analizzato un campione di terreno fatto uscire "clandestinamente" dal Kosovo: il risultato è che il campione rivela una presenza di Du mille volte superiore a quella naturale!
MASCHERINE E TUTE "USA E GETTA" La lettera della NATO convince i vertici militari italiani a muoversi. E così il 10 aprile 2000 - i militari italiani si trovano già da 10 mesi nella zona di Pec, fra le più colpite dagli A-10, e nessuno li ha informati dei rischi che corrono e delle precauzioni da prendere - il Comando delle forze operative terrestri dell'Esercito trasmette ai vari comandi competenti, fra cui quelli di Pec, Durazzo e Sarajevo, una informativa di sei pagine. Dopo aver minimizzato il rischio il documento prescrive norme tutt'altro che rassicuranti per i militari che si trovano ad operare in zone dove è presente uranio impoverito: essi devono essere provvisti di mascherine e particolari tute monopezzo che una volta usate devono essere consegnate al personale specializzato che le deve sigillare in particolari sacchetti, Inoltre è vietato toccare eventuali residui di munizionamento Du e non si deve sostare a lungo in zone dove siano presenti mezzi colpiti da tali proiettili. Inoltre il documento consiglia di sottoporre ad analisi soggetti deboli o a rischio contaminazione. Il resto è cronaca di questi giorni: il Ministero dell'ambiente pubblica la mappa dei siti inquinati e su tutta la vicenda cala un silenzio di piombo. Ci pare particolarmente importante sottolineare il vergognoso atteggiamento dei politici e giornalisti italiani "impegnati" nella denuncia dei pericoli del Du, preoccupati delle conseguenze sui soldati italiani ma silenziosi sulla sorte delle popolazioni kosovare che sono tornate nelle loro città e paesi inquinati dall'uranio sparato durante le guerra "umanitaria". Saranno soprattutto loro, kosovari di tutte le etnie, a pagare: secondo uno studio del biologo gallese, Roger Coghill, nella regione balcanica si potrebbero verificare nel giro di pochi anni oltre 10.000 morti per cancro causate dai proiettili all'uranio. Le prime conseguenze si potranno vedere all'inizio del 2001.
BANDIRE LE ARMI ALL'URANIO Nell'agosto 1996 la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato l'uso delle armi Du e ha chiesto al segretario generale dell'ONU un'inchiesta che riconosca che i proiettili all'uranio impoverito sono armi di distruzione di massa con effetto indiscriminato, vietate dalle convenzioni internazionali, in particolare da quella dell'Aja del 1899. Finora però gli sforzi per vietare l'uso di queste armi hanno cozzato contro gli interessi dei militari, degli industriali e dei responsabili dei depositi di uranio impoverito. Ormai è chiaro che l'uso di armi all'uranio è un crimine contro l'umanità alla stregua dell'uso di mine antiuomo, delle armi batteriologiche e chimiche, della bomba atomica. Quanti uomini, donne e bambini dovranno ancora morire prima di arrivare al loro bando? Antonio Ruberti
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