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Da "Umanità Nova" n.37 del 19 novembre 2000
Voce al popolo
Ungheria: 19 novembre 1956 l'esercito sovietico annienta la rivolta dei consigli operai
Ve la ricordate la "Sfilata per l'anniversario della Rivoluzione Russa" del
1956?
Da una finestra di un albergo di Mosca, Diego Rivera ci offre uno dei
più suggestivi ritagli storici di quell'epoca. Sullo sfondo, appena
svaporata dai fumi di una sottile nebbia, le cupole orientali del Cremlino
accolgono la marcia rigorosa d'un fiume umano che trasporta un gigantesco
pallone blu solcato dalla parola pace scritta in tutte le lingue del mondo.
Bandiere rosse, blu scure, gialle, che sembrano vele, spuntano tra questa onda
di cappelli di operai e foulard di contadine, e muovono da una parte all'altra
la rigorosa geometria degli striscioni, questi tasselli gialli che sembrano
recinzioni, queste placche che nascondono le parole. Perché in quel
movimento lento, il popolo è muto, inespressivo, un corpo solo senza
articolazioni. Sezionato ai fianchi da una schiera ancora più
disciplinata di soldati, che lo comprimono ai due lati, proteggendo con gran
cura un filare di alberi senza foglie e un imponente edificio su cui un drappo
rosso segna 38 e l'effigie della falce e martello, quel popolo resta
inespressivo, nonostante l'impatto quasi allegro dei suoi colori. E dà
una certa angoscia, il riscoprirlo aggrappato per quelle otto mani al pallone
blu. La pace portata come un peso, in bilico sopra le teste, lungo la migliore
curvatura del corteo disegnata dalle schiene dell'Armata Rossa. Un pallone blu
che non si sgonfia ma che precipiterebbe senza quei corpi anonimi e quelle otto
mani scure. Senza la protezione delle bandiere, adesso così affilate da
evocare uno scenario militare, forse punte aguzze di baionette che fanno
capolino oltre gli striscioni, nuove frontiere a tensione elettrica, moderni
ostacoli a filo spinato: trincee. Così, in quel silenzio, il popolo
scompare. Se alcuni mesi prima, Diego Rivera si fosse trovato in un hotel di
Budapest avrebbe potuto regalarci una diversa suggestione del socialismo
realizzato. Sullo sfondo, appena soffocata dai fumi di una sottile nebbia di
lacrimogeni, i cancelli di una fabbrica ungherese presidiati da operai armati
aspettano l'arrivo delle truppe sovietiche. Dentro questa onda ben
disciplinata, geometricamente disciplinata, un gruppo di soldati issa, sulle
punte delle baionette, un pallone gigantesco con sopra scritta la parola pace,
in tutte le lingue del mondo. Quei tasselli gialli, minacciosi, nascondono il
trambusto dei cingolati, questa volta, e le cupole dei blindati, che richiamano
alla mente l'architettura del Cremino, proprio lungo la migliore curvatura
disegnata dai corpi femminili delle insorte di Budapest. Ai lati, infatti,
fanno pressione le operaie e le contadine delle terre d'Ungheria. Una di loro
chiede come faccia quel pallone blu a non esplodere, sorretto da quelle otto
lame di baionetta. È una pressione tenace quella che viene fatta ai
fianchi del corteo da queste donne, i cui colori dei copricapo segnano i
contorni di una rabbia da fare a voce alta, con forza. Si tratta di una rabbia
disperata che riconsegna finalmente voce al popolo.
Luca Papini
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