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Da "Umanità Nova" n.38 del 26 novembre 2000
Contro le patrie
Identità nazionale, guerre e razzismo
Come se ogni giorno dovessero acquistare il diritto di vivere...
(Pietro Abelardo, XII secolo)
Un bambino colpito dalle pallottole dell'esercito israeliano che muore tra le
braccia del padre disperato; tre soldati dello stesso esercito catturati dalle
milizie palestinesi e selvaggiamente linciati da una massa inferocita.
Certamente! Anche se abusati mediaticamente da una parte e dall'altra, sono
proprio questi i fatti da cui si deve partire. Perché restano il segno,
la rappresentazione concreta di una tragica, assurda realtà. Come se
ogni giorno il popolo palestinese e quello israeliano dovessero acquistare il
diritto di vivere, dimostrare che anche per loro esiste e che nessuno
può negarlo o limitarlo. Il diritto a una vita normale, difficile e
serena, ardua e contraddittoria...
E invece, come si verifica da tempo immemorabile, pur nella diversità
delle contingenze storiche, gli abitanti di questa disgraziata e irripetibile
regione si ritrovano a dover subire le vicissitudini di una situazione precaria
e drammatica creata dai criminali effetti dell'integralismo religioso, del
nazionalismo esasperato, del pregiudizio razziale. Due popoli che si continua a
definire "razze" - ma nei quali l'esame del DNA farebbe registrare una
consanguineità di primo grado - rimangono caparbiamente divisi,
provocandosi reciproci lutti e miserie (la cui differenza quantitativa nulla
toglie all'equivalenza sostanziale) nella feroce convinzione che la
sopravvivenza dell'uno può essere garantita solo nella limitazione del
diritto all'esistenza dell'altro. Del diritto all'esistenza e di ogni altro
diritto.
Una pretesa diversità
Questa pretesa "diversità", che nasce principalmente da una costruzione
ideologica obsoleta e assurda qual è la religione (qui intesa nella sua
natura istituzionale e normativa e non come esigenza spirituale) trova un'altra
ragion d'essere negli effetti di interessi economici e strategici rispetto ai
quali i due popoli in lotta altro non sono che semplici pedine: consapevoli e
responsabili fin che si vuole, ma pur sempre pedine. Perché altri sono
gli alfieri e le regine, sono i paesi e i blocchi che giocano sulla pelle
altrui una sporca guerra intesa a definire il loro equilibrio in un'area
geografica che rappresenta un importantissimo crocevia del pianeta. Non
dovrebbe essere un mistero per nessuno che a soffiare sul fuoco
dell'integralismo e dell'intolleranza non sono solo i sanguinari e
irresponsabili fanatici delle due sponde, ma anche e soprattutto i custodi di
interessi dislocati a migliaia di chilometri di distanza dalle terre nelle
quali giorno dopo giorno dei disgraziati ammazzano e si fanno ammazzare.
Sfruttando un pregiudizio razziale coltivato urbe et orbi in duemila anni di
antisemitismo o l'ingiusto disprezzo verso il vicino più povero e
arretrato (sentimenti generati dall'insensibilità dell'ignoranza),
favorendo il violento protagonismo del fanatico integralista di fede musulmana
o ebraica, l'uno che si incunea in un territorio solo per impadronirsene invece
di convivere con chi già vi risiede, l'altro che manda cinicamente
bambini di 12 anni a farsi ammazzare come mosche in nome di una guerra santa
(orribile concetto che riesce a racchiudere due delle maggiori nefandezze
dell'umanità: la guerra e la fede cieca), giocando sulla
necessità dei locali gruppi di potere di garantirsi con la guerra una
compattezza e un consenso difficilmente raggiungibili per altre vie, viene
mantenuto uno stato di tensione che serve solo ai veri nemici di questi popoli,
a chi vuole cioè che nell'area mediorientale permangano le condizioni
per l'ingerenza di potenze estranee e portatrici di interessi che nulla hanno a
vedere con quelli di arabi ed ebrei.
Un processo storico ineluttabile
E infatti gli sforzi di chi si oppone all'uso della forza e tenta di creare un
clima di convivenza e tolleranza tanto necessario quanto difficile da
raggiungere (e non parlo degli uomini di stato un po' più ragionevoli,
la cui buonafede lascia il tempo che trova, ma piuttosto di coloro che da
entrambe le parti, tra incertezze, difficoltà e contraddizioni, cercano
di far sentire la propria voglia di pace) vengono puntualmente vanificati dal
ripetersi di reciproche provocazioni, tanto più vigliacche quanto
più fertile è il terreno sul quale crescono. La stessa visita di
Sharon alla spianata della moschea di Gerusalemme (ossia la causa
"ufficialmente" scatenante di questa nuova intifada) non deve essere letta
nell'ottica stantia - anche se non inverosimile - che vede l'israeliano
provocare e il palestinese subire, ma piuttosto come un atto coordinato e
studiato a tavolino dalle fazioni estreme di entrambi gli schieramenti, decise
a interrompere gli sforzi di pacificazione operati sul territorio.
Se è vero, come è vero, che il processo storico ineluttabile
è quello che dovrebbe portare per amore o per forza a un accordo sulla
consensuale spartizione di queste terre, appare chiaro che questa soluzione
diventerebbe la pietra tombale per i politici di entrambe le parti che giocano
il loro ascendente e la loro credibilità sull'intransigenza verso
qualsiasi concessione al "nemico", e che trovano la propria legittimazione nel
porre sotto tutela i rispettivi popoli. E naturalmente anche per i centri di
potere cui si accennava poc'anzi, il cui interesse si dimostra assolutamente
antitetico a quello di chi non può avere nulla da guadagnare nel
convivere con una situazione di continua tensione e conflittualità.
Oggi più che mai è indispensabile capire come sia profondamente
sbagliato ostinarsi a parteggiare per l'uno o per l'altro, mettendo la sordina
alle prospettive di pacificazione e facendo attenzione solo alle ragioni della
guerra. Se, in una situazione drammatica e difficile come quella che vede
scannarsi senza rimorsi palestinesi e israeliani, si rifiutano le ragioni della
pace per propugnare una logica partigiana, non si fa altro, in ultima analisi,
che sostenere un governo, uno stato, un potere, siano essi in fieri o
già funzionanti, perfetti o imperfetti, legittimi o illegittimi. E
accorgersi dei torti commessi non può essere l'alibi per nuovi torti da
aggiungere ai vecchi, ma l'occasione per denunciare la stupida crudeltà
della guerra. Oggi schierarsi vuol dire mettersi comunque dalla parte di un
potere; non schierarsi e dichiarare la propria opposizione alla guerra ci
riporta invece a fianco dei popoli e dei loro bisogni: quelli vitali e non
quelli inventati dalla propaganda, dalla demagogia e dall'odio razziale. Per
chi ama la libertà e la vita, la libertà e la vita di tutti,
è imprescindibile restare sempre dalla parte dei popoli, non ci si vuol
ritrovare a fianco dei padroni del mondo, a fianco dei potenti, a fianco dei
militari, a fianco dei preti. Di qualunque fede siano e qualunque divisa
indossino.
Identità nazionale, guerre e razzismo
Con la forza di questa consapevolezza. non si può più confondere
la difesa dei valori esistenziali, sociali e culturali di un popolo soggetto
agli attacchi di un imperialismo culturale uniformante ed egemonizzante, con
l'utilizzo dei concetti di nazionalità e nazionalitarismo: espressioni
quanto mai ambigue, che si prestano solo a interpretazioni reazionarie e
razzistiche. Il funesto mito della razza, che si porta dietro quello della
superiorità della propria razza, passa anche attraverso l'acquisizione
del concetto di identità nazionale, intesa non in un'accezione
culturale, ma come valore elitario, supremo e inalienabile. Un valore
totalizzante, quindi, che annulla le differenze sociali e di classe azzerandole
in nome di tale identità superiore, finalizzata a far coincidere gli
interessi degli sfruttati con quelli degli sfruttatori.
Ma non può esistere una coincidenza di interessi solo perché
delle persone parlano la stessa lingua e vestono allo stesso modo, hanno la
stessa religione di stato e un medesimo alfabeto: questa è la favola che
ci raccontano da sempre per giustificare tutte, e sottolineo tutte, le guerre
che hanno appestato la storia dell'umanità. Se pensiamo alla situazione
irlandese, così connotata dai due cristianesimi contrapposti, a quella
degli slavi del sud, ferocemente divisi da ben tre religioni, alle conseguenze
drammatiche del contrasto fra buddismo, islamismo e induismo nel subcontinente
indiano, ai mille focolai di crisi nel melting pot religioso di quel che resta
dell'impero sovietico... come non accorgersi di quanto sia pericoloso
affiancare alle giuste rivendicazioni di autonomia i concetti di nazionalismo e
di supremazia religiosa?
Gli interessi in campo sono altri, tutto il resto è fumo! Da una parte
quelli di chi sfrutta - e questi li combattiamo indipendentemente da qualsiasi
altra considerazione - e dall'altra parte quelli di chi è sfruttato - e
con questi ci identifichiamo come sempre abbiamo fatto. È il popolo,
è il mondo del lavoro il nostro referente, quello che subisce il giogo
del potere e del capitale; quello che, pur appartenendo in ogni paese a una
identità collettiva che è il collante del suo essere sociale, non
vuole fare di tale identità un elemento di "diversità" e di
separatezza, ma piuttosto di scambio e arricchimento.
Questo terzomondismo d'antan
Quando poi si passa a sostenere con il nostro impegno internazionalista i
popoli del terzo mondo del pianeta, vittime dello sfruttamento del primo mondo,
dobbiamo sempre operare in modo radicale la distinzione fra popoli e
rappresentanti nazionali, vale a dire fra governati e governanti. Molto spesso
infatti un terzomondismo d'antan, fors'anco generoso ma decisamente
controproducente, non fa altro che aggravare il male che vorrebbe combattere.
Convinto di appoggiare una sacrosanta lotta di liberazione, il suo appoggio
acritico e incondizionato al regime "antimperialista" di turno va regolarmente
a rafforzare un potere oppressivo e dispotico e a indebolire le
possibilità di emancipazione del popolo in questione. Non basta lottare
contro l'imperialismo per avere tutte le ragioni!
Spesso assistiamo a prese di posizione anche coraggiose, che si appiattiscono
però su schematizzazioni che dovrebbero ormai appartenere a un non
rimpianto passato governato dall'Ideologia. L'analisi di impianto
sostanzialmente marxista che vedeva da un lato popoli oppressi e dall'altro
popoli oppressori, mi pare debba essere superata dalla considerazione che se ci
sono, naturalmente, popoli e popolazioni oppresse, non esistono popoli
oppressori. Esistono invece regimi politici e classi dirigenti, sparsi per
tutti i continenti, che continuano a legittimare la propria violenza, la
propria brutalità, il proprio criminale diritto, anche e soprattutto
coltivando fra i propri governati i germi dell'"identità
nazionalitaria". Mandando a uccidere e a morire gente nella quale si è
conculcato fin dall'infanzia un assurdo sistema di valori che pone al vertice
della piramide l'identità nazionale in nome della quale tutto diventa
lecito, anche la peggiore infamia. Non rendiamocene complici!
Massimo Ortalli
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