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Da "Umanità Nova" n.38 del 26 novembre 2000

Dibattito/laquestionesociale2
La lotta paga

Vorrei provare a sviluppare alcune riflessioni sulla componente soggettiva dell'azione del proletariato in Italia, tenendo conto delle riflessioni che altri hanno già fatto sulle condizioni oggettive, e che in generale condivido, e tenendo conto di alcuni elementi che si sono verificati recentemente. Innanzi tutto lo sciopero dei lavoratori della scuola del 16 ottobre. Al di là dei limiti di tale scadenza (difficoltà nel costruire una scadenza unitaria, incertezza sulla data e così via), al di là del fatto che si svolgeva dopo quello dei sindacati di Stato, ha visto una tenuta della categoria non indifferente, con una significativa partecipazione sia allo sciopero che alle manifestazioni. Inoltre gli scioperi nei trasporti, ultimi in ordine di tempo gli scioperi organizzati dal Sulta; infine lo sciopero e la manifestazione dei lavoratori della Telecom. Su questo momento di lotta vale la pena di spendere qualche parola. Se la memoria non mi tradisce, dai tempi dei trentacinque giorni alla FIAT è la prima volta che i lavoratori di una grande industria si mobilitano in una lotta al di fuori dei sindacati di Stato. Le ragioni "oggettive" dell'importanza di questa lotta sono evidenti: la Telecom è la più grande industria italiana, è un'industria che impiega tecnologia e modelli di organizzazione del personale di avanguardia, è un'azienda che produce profitti, è un'azienda che è riuscita a costruire consenso sociale attorno alle proprie scelte (lo dimostra l'azionariato diffuso), e ad ottenere il consenso degli investitori istituzionali internazionali (vedi la posizione sulle vicissitudini finanziarie che l'hanno attraversata), è un'azienda, in altre parole, che ha preso il posto della Fiat fra i grandi gruppi italiani.

L'elemento soggettivo presente in questa lotta è altrettanto significativo: non ci troviamo di fronte alla solita lotta difensiva, ad una esplosione di rabbia di fronte alla protervia padronale; i lavoratori della Telecom hanno bocciato il contratto siglato dai sindacati di Stato, perché non adeguato alle loro richieste. In questa lotta, quindi, comincia ad emergere un elemento di attacco, di soggettività che non va sopravvalutato ma nemmeno ignorato. È forse presto per parlare della rinascita del movimento dei lavoratori, per considerare chiusa la fase della guerra di posizione che ci ha visti impegnati in questi anni a difendere i postulati delle teorie rivoluzionarie, a gettare le basi di nuove organizzazioni dei lavoratori, ed aperta una fase di attacco; forse ci troviamo solo di fronte a potenzialità, che non è detto si sviluppino nel senso da noi auspicato. Può comunque tornare utile aprire un dibattito che ci dia dei punti di riferimento per agire all'interno di un nuovo eventuale movimento. Un primo elemento su cui riflettere è l'analisi delle condizioni oggettive in cui si svolge lo scontro di classe: l'impostazione comunemente accettata spiega quanto sta accadendo sulla base dell'analisi delle condizioni oggettive. Questo metodo è utilissimo per spiegare quanto è già avvenuto nello scontro di classe, ma ci permette di formulare solo delle ipotesi su quello che accadrà in futuro; quando queste ipotesi saranno smentite, allora andremo alla ricerca di quella condizione oggettiva che avevamo sottovalutato. Tutto il dibattito sul "postfordismo" è un altro esempio di questo modo di procedere. In realtà, quando facciamo delle previsioni, isoliamo alcuni fattori di cui definiamo le conseguenze, a prescindere da altri fattori perturbativi.

Purtroppo la realtà sociale è piena di questi fattori perturbativi e le classi di cui noi ci occupiamo, come ogni classe logica, sono insiemi di individui, il cui comportamento può essere determinato solo in modo statistico e probabilistico. In altri termini le condizioni materiali determinano in generale tutte le altre condizioni politiche, sociali e culturali di esistenza, ma solo in generale, il singolo mantiene intatta la sua libertà di accettare o meno queste condizioni in cui si trova a vivere. Quando i singoli diventano statisticamente significativi, nasce un movimento che critica le proprie condizioni materiali di esistenza. Fra i fattori perturbativi quindi va compresa anche la soggettività degli sfruttati, che può essere stimolata dalla nostra azione di propaganda e di agitazione: l'ottimismo della volontà, in quest'ottica, non è semplicemente un elemento consolatorio di fronte al destino cinico e baro, ma una componente essenziale di una visione della realtà che ne rispecchi il movimento di trasformazione. Accanto alle condizioni oggettive, un elemento importante di valutazione è dato appunto dall'impatto che esercita la nostra attività, forse l'unico attorno al quale possiamo ottenere dati certi e non semplicemente dedotti dalle statistiche ufficiali. L'attenzione al movimento, rispetto a quella dedicata alla classe, è un elemento centrale della riflessione che sviluppa Malatesta e giunge a maturità nei lavori pubblicati su Umanità Nova negli anni '20. Questo concetto è lentamente scomparso dal nostro dibattito e tante incomprensioni che si sono registrate in questi anni derivano probabilmente dalla confusione che si è creata attorno al concetto di classe operaia, che ha finito per assorbire anche caratteristiche del movimento operaio. Diverso è il significato di espressioni come "scomparsa della classe operaia" e "scomparsa del movimento operaio", come le conseguenze, a livello politico, che ne dobbiamo trarre. Sia classe operaia che movimento operaio sono concetti che si riferiscono ad insiemi di individui, ma mentre il primo fa riferimento ad un insieme di relazioni (lavoro manuale, salario) che l'individuo subisce, il secondo mette in campo una scelta individuale: il movimento operaio è quell'insieme di individui che appartengono alla classe operaia e che hanno deciso di muoversi per cambiare le loro condizioni di esistenza. Di fronte agli episodi attuali, forse è più corretto parlare di movimento dei lavoratori: la componente dei lavoratori manuali non è sicuramente esclusiva.

Questo non vuol dire che automaticamente il movimento dei lavoratori sia rivoluzionario: già Malatesta in tempi di operaiolatria e studiando il movimento operaio degli Stati Uniti aveva avanzato seri dubbi sulla spontanea natura rivoluzionaria del movimento operaio e dei sindacati; il movimento è comunque il presupposto di una pratica, di un'esperienza che apre il campo alla propaganda anarchica e alla preparazione dell'espropriazione. L'esistenza del movimento dei lavoratori riveste quindi un'importanza strategica per i militanti anarchici: la sua crescita, il suo orientamento rivoluzionario, la sua organizzazione libertaria dovrebbero essere al centro della nostra attenzione. Se le altre forze politiche hanno a disposizione i canali di propaganda istituzionali, l'anarchismo può sfruttare solo la sua presenza all'interno dei movimenti, che per questo deve essere organizzata e visibile. Il movimento cresce sfruttando i margini di miglioramento che le condizioni dei lavoratori hanno in qualsiasi situazione dello scontro di classe: questa affermazione presuppone che esista un insieme di obiettivi perseguibili e realizzabili che non mettono in crisi la formazione economico sociale ma che comunque permettono al movimento di fare dei passi in avanti e su cui è possibile fare delle scelte, fra quelli più raggiungibili, quelli più corporativi ecc, e che queste scelte siano alla portata degli organismi di movimento. Se noi consideriamo tutti gli obiettivi intermedi come dei semplici palliativi, il movimento non ha possibilità di scelta e non può fare esperienza di modelli organizzativi autogestionari. L'unico scopo è una ginnastica rivoluzionaria fine a se stessa, per cui scompare anche la necessità di valutare l'obiettivo, purché si lotti. Io sono convinto che, sia pure nella loro limitatezza, sia fondamentale l'esperienza che la lotta paga, per la crescita della disponibilità alla lotta; se la lotta non paga, persone che non si nutrono solo dell'ideale saranno costrette a scegliere altre strade per tirare avanti. Quando Malatesta parla di movimento operaio non fa riferimento ad un movimento occasionale che si muove su questa o quella lotta.

Si riferisce a tutte le organizzazioni che i lavoratori si sono dati, partiti, sindacati, associazioni culturali e di solidarietà, e a quei lavoratori disorganizzati che spesso sono i primi nelle lotte. Ecco, io credo che non sia possibile parlare oggi di movimento dei lavoratori senza sciogliere il nodo della loro organizzazione permanente, senza che i militanti della FAI non si schierino chiaramente e pubblicamente a sostegno dell'organizzazione sindacale dei lavoratori. Non è possibile pensare ad un movimento dei lavoratori che non presupponga l'organizzazione sindacale, cioè un'organizzazione che fissi il livello a cui deve essere venduta la forza lavoro e che vigili affinché questo livello sia rispettato dai capitalisti. Questo obiettivo non è raggiungibile da nessun comitato, collettivo spontaneo sia pure il più rivoluzionario e il più di massa. Questa funzione richiede un'organizzazione permanente e capillare. Certo, molto c'è da dire su come fissare il livello e su come vigilare, soprattutto da parte dei militanti anarchici, ma è su questi presupposti (non si oltrepassano i picchetti e non si lavora sotto tariffa) che i lavoratori misurano chi sta effettivamente dalla loro parte. Poi, possiamo fare tutta la retorica che ci pare, ma se manca questa base materiale è ben difficile che il movimento dei lavoratori possa elevarsi molto al di sopra della pura sussistenza. A proposito dell'organizzazione sindacale, ritengo importante aprire il dibattito sulle sezioni sindacali aziendali, che dovrebbero essere il fulcro dell'azione sindacale e l'ambito in cui i lavoratori si abituano a collaborare e a prendere le decisioni. Facendo un paragone con la FAI, le sezioni aziendali dovrebbero ricoprire lo stesso ruolo dei gruppi, essere il massimo momento decisionale per le scelte dell'organizzazione nazionale. So benissimo che la realtà del sindacalismo di base è ben diversa, che ci troviamo di fronte spesso a piccoli nuclei che possono essere coordinati solo a livello territoriale o di categoria, ma si tratta di un problema da risolvere e non di una realtà da accettare. La scelta di partecipare alle elezioni delle RSU, ad esempio, è maturata nei vari sindacati di base a livello nazionale, se non a livello politico: gli organismi nazionali non hanno raccolto l'orientamento dei vari organismi di fabbrica e sulla base di queste indicazioni hanno compiuto le loro scelte. Al di là della valutazione ideologica, il difetto di questa scelta sta nell'illusione che la partecipazione alle RSU consenta di costruire quel radicamento nelle aziende che la pratica sindacale non ha consentito, riproducendo il meccanismo utilizzato dai sindacati di Stato, che perdono ogni legittimità di fronte ai lavoratori, ma la riacquistano grazie al riconoscimento istituzionale. Il radicamento sul posto di lavoro si costruisce solo a partire da una militanza sindacale, solo costruendo delle strutture, le sezioni sindacali appunto, che permettano ai lavoratori di esprimersi e non servano solo a legittimare il militante più attivo. In questo quadro, anche la partecipazione alle elezioni delle RSU assume un altro significato: i lavoratori eletti saranno rappresentanti di una struttura esistente e il centro decisionale rimarrà sempre nella sezione sindacale e non nell'organismo delegato. Credo di aver messo abbastanza carne al fuoco, spero che altri compagni, più esperti di me, diano il loro contributo al dibattito. Per quanto mi riguarda, cercherò di dare un dimensione teorica, commentando gli articoli di Malatesta sull'argomento.

Tiziano Antonelli

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