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Da "Umanità Nova" n.39 del 3 dicembre 2000
Conferenza dell'Aja sull'ambiente
I quindici giorni che non sconvolsero il mondo
Piace alla carta stampata ed ai network radiotelevisi annunciare i fatti che
accadono sui teatri di posa della politica spettacolare alla stregua di eventi
epocali. Cosicché quando - nelle pluriennali assemblee mondiali - non
accade nulla di importante e determinante per le sorti dell'umanità (che
so, la proclamazione di un trattato del libero commercio, oppure l'accordo
sullo smaltimento dei rifiuti tossici radioattivi, o ancora le regole generali
per la ricerca e lo sviluppo tecnologico-scientifico), la preoccupazione,
l'incertezza, lo sconforto sono di scena.
Puntualmente alla chiusura della Conferenza dell'Aja sul Clima, dopo che per
due settimane 180 Paesi hanno provato a cercare una mediazione sull'emissione
dei gas-serra, alla notizia che nessuna mediazione si era potuta trovare tra
l'intransigenza nord-americana e l'ipocrisia europea, il circo Barnum
dell'informazione mediatica ha decretato il suo de profundis, vale a dire la
fine prossima del nostro pianeta per colpa dei mancati accordi avviati in sede
diplomatica. Come se per davvero all'Aja si stava discutendo sulla
possibilità di ridurre del 60% l'emissione di anidride carbonica,
metano, perfluorocarburo, protossido di azoto, idrofluorocarburo, esafluoro di
zolfo, al fine di iniziare ad invertire il processo di asfissia del Pianeta
Terra.
In realtà alla Conferenza dell'Aja, come in tutte le assise
internazionali (compresa ormai la famosa riunione del WTO a Seattle lo scorso
anno), le decisioni assunte ratificano gli accordi già intrapresi non
solo fra le dirette politiche diplomatiche statali, ma soprattutto fra gli
agenti principali dello sviluppo politico-economico: le società
transnazionali e le loro lobby finanziarie.
Ora com'è possibile credere che in quindici giorni i rappresentanti dei
180 governi mondiali convenuti in Olanda, sarebbero riusciti a trovare un
accordo sul problema dei gas-serra, quando questo prevede una radicale
inversione di rotta in materia di risorse energetiche, nel senso di un
progressivo ed accentuato abbandono dei combustibili fossili a favore
dell'utilizzo delle fonti rinnovabili e compatibili con l'ambiente? Ciò,
infatti, sarebbe equivalso ad una moratoria nei confronti dello sviluppo
economico basato su di un paradigma che vede il progresso quantitativo della
merce (qualsiasi merce, quindi anche e soprattutto la merce-uomo) come
l'affermazione della ricchezza e quindi della "qualità della vita".
Perché migliorare le condizioni di vita dell'intera umanità - sin
dai tempi degli accordi di Bretton Woods - non ha significato altro che
innalzare gli standard consumistici, generalizzando e diffondendo il concetto
del progresso economico illimitato per tutti i Paesi del mondo, ad iniziare dai
Paesi cosiddetti "arretrati", "sottosviluppati". In altre parole poveri. Quegli
stessi poveri che adesso si sentono a loro volta additati come responsabili del
degrado ambientale causato dal progressivo innalzamento del proprio "livello di
vita" prodotto dalla delocalizzazione delle industrie dei Paesi ricchi, i quali
vorrebbero ora assumere il ruolo e la funzione di moralizzatori dell'intero
genere umano. Dopo tutto fa tanto chic!
Ecco perché ci fanno rabbia i pianti di coccodrillo di chi nella
Conferenza dell'Aja ha intravvisto un'occasione perduta affinché si
iniziasse una politica governativa su scala mondiale capace di affrontare le
problematiche ambientali. In primo luogo perché la globalizzazione
dell'economia è nei fatti ostile a qualsiasi politica governativa che
regolarizzi e disciplini il mercato mondiale, sia sotto il profilo di cosa
produrre, così come sotto l'aspetto di quali condizioni umane ed
ambientali attuarlo. In secondo luogo perché la sopravvivenza della
specie umana non è ancora una merce che può essere prodotta su
scala mondiale, ma un bene di lusso per pochi. E quei pochi e ricchi lo sono
ora e qui. Un domani, chissà. Di certo non saranno loro ad ereditare le
macerie di un mondo marcio.
Jules Elysard
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