Da "Umanità Nova" n.39 del 3 dicembre 2000
La voce dei lettori
Ciao, anarchici!
Era trascorso molto tempo dall'ultima volta che avevo letto Umanità
Nova; rivedere la vostra testata rossonera mi ha dato quasi un senso di
vertigine temporale.
Allora eravate miei compagni di serate, scazzi, piazza... quasi un secolo fa,
ai tempi di Kossiga.
Intanto, molte cose sono cambiate, forse io stessa, ormai felice mamma di due
dolci teppisti, con un lavoro non più precario (fortuna o sfortuna, non
so).
Anarchica non sono stata mai, ero e rimango comunista e l'autonomia, non solo
politica, è rimasta la bussola della mia vita, calata e cercata
(faticosamente) nel mio presente di donna, nei rapporti personali e nella
quotidianità del lavoro subordinato.
Ed in quanto autonoma devo ringraziarvi di cuore sia per essere rimasti
intatti, sia perché riuscite a scrivere considerazioni non banali sulle
sorti di un'area politica che ha le sue radici in quella esaltante e
coinvolgente esperienza collettiva che gli inquisitori definirono Autonomia
Operaia Organizzata, di cui sono stata parte.
Opportunamente voi li definite post-autonomi, dimostrando di avere
onestà intellettuale e memoria storica; ma probabilmente non sono
definibili neppure tali.
Seguo, sia pur in modo discontinuo, il dibattito in rete e sulla stampa di
sinistra e devo dire che questi signori fanno dell'autentica mistificazione
quando dicono che il loro "nuovo corso" intende sancire il distacco dalla
tradizione comunista-terzointernazionalista; infatti l'Autonomia che io ho
conosciuto e vissuto oltre vent'anni fa era già ben oltre il 1917!
La nostra sovversione era la somma Lenin-Dada non certo il mitico assalto al
Palazzo d'inverno; il socialismo da caserma-fabbrica non ci è mai
appartenuto ed anzi lo abbiamo avversato con forza quando il PCI voleva imporlo
come modello sociale e culturale.
Per cui emerge la malafede politica di chi sotterra l'utopia del comunismo in
nome di una evanescente quanto interclassista "società civile" e della
democrazia, dando una bella mano ai tanti interessati becchini che, ogni
giorno, vogliono convincerci - con le buone o con le cattive - che le classi
non esistono più, che il comunismo è morto e che la rivoluzione
è una sciocchezza puerile.
A loro va solo dato atto di usare un lessico modernista e apparentemente frutto
di chissà quali analisi, ma basta poco per scoprire, appena sotto la
superficie, che è ciarpame ancor più vecchio di quello che loro
ritengono materiale da "bottega dell'antiquario": è l'illusione
riformista e socialdemocratica, avversata prima dagli anarchici e poi dai
comunisti già un secolo fa.
Per paradosso, l'unica cosa che questo ceto politico trasformista ha salvato
del vetero-comunismo è la maniera stalinista di rapportarsi con quanti
non accettano l'egemonia del "partito".
Tutto ciò è patetico e ridicolo allo stesso tempo.
Perché affermare di non voler conquistare il potere, senza porsi il
problema di abbatterlo, significa partecipare al banchetto di chi lo detiene,
nascosti dietro la perenne ipocrisia di voler cambiare dall'interno un sistema
che invece è fatto apposta per non essere modificato.
In occasione di Seattle, non per caso ho sentito farneticare di lotta per
democratizzare la globalizzazione; sarebbe come proporre (e purtroppo
c'è chi lo fa) di umanizzare un lager: questo è l'orizzonte di
chi ormai si vergogna a pronunciare la parola rivoluzione.
Comunque, state tranquilli, certe maschere cadranno da sole: è soltanto
questione di tempo, chi tagli i ponti col passato se li taglia anche per
futuro.
Con simpatia,
Dalle montagne del Trentino
Elisa
Autonomamente in cammino
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