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Da "Umanità Nova" n.40 del 10 dicembre 2000

Sid parallelo
Il doppio stato

Autunno 1973. Un'inchiesta nata a La Spezia, a seguito delle dichiarazioni rese alla Polizia da Giancarlo Porta Casucci, medico ligure amante delle svastiche e della medaglie del Fuhrer, passa per competenza alla Procura di Padova. Casucci risultò essere uno dei responsabili in Italia del consesso di devoti camerati conosciuto come gli "Elmi d'acciaio", attorno a cui gravitavano strani personaggi. Tutti rigorosamente armati.

Il più celebre è certamente il principe Giovanni Francesco Alliata di Montereale, già fondatore del Movimento nazionale di opinione pubblica e della Maggioranza silenziosa, due gruppi contigui all'estrema destra, all'epoca presidente di una singolare "Libera confederazione mondiale del commercio e del turismo", con sede a Bruxelles. Uno dei funzionari incaricati di girare per la penisola, accogliendo nuovi iscritti e promuovendo l'attività della confederazione era tale Eugenio Rizzato, gerarca della Repubblica di Salò mandato libero dall'amnistia di Togliatti nel 1946 e da subito ritornato a fervidissima attività. Anche Rizzato viene colto sul fatto dalla Polizia che durante un controllo gli trova in macchina armi, volantini eversivi, passamontagna.

Insomma una banda di signori, giovani e meno giovani, tra cui il famoso Roberto Cavallaro, venticinquenne con una spiccata passione per le divise e i gradi militari, specialmente se falsi - che sarà poi il più disponibile ad una confessione piena e ricca di interessanti particolari - di cui Casucci conserva ampia documentazione.

A Padova il caso viene affidato al giudice Giovanni Tamburino, appena trentenne, che comincia a rovistare nell'archivio del medico. Si tratta di appunti scottanti su finanziamenti al gruppo, proclami da inviare nelle caserme per rendere edotti i militari del pericolo rosso, persino un progetto insurrezionale. Ma non basta. Perché tra la miniera di informazioni ritrovate nella borsa nascosta da Casucci in una canonica, saltano fuori anche una serie di volantini firmati con sigle differenti. È il primo segnale della presenza di una organizzazione che sembra raccogliere una molteplicità di piccoli gruppi. C'è n'è uno in particolare, la Rosa dei Venti, destinato a diventare famoso e a dare il nome all'inchiesta di Tamburino.

Qualche anno fa il giornalista Gianni Barbacetto ha raccolto una serie di testimonianze da alcuni magistrati che hanno incrociato, in differenti occasioni, le numerose trame dell'Italia occulta. Da quel libro - si intitola Il Grande Vecchio - traggo le notizie che vi riporto, relativamente all'indagine sulla Rosa dei Venti. Attraverso quegli avvenimenti, occorsi nel 1974, un anno fatidico, al pari di altri, nella storia della nostra Repubblica presunta democratica, ci riallacceremo alle vicende del cosiddetto Sid parallelo che hanno occupato le pagine dei quotidiani di questi giorni, innescando una polemica addirittura tra Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione stragi, e Giulio Andreotti. Ancora una volta potremo ragionevolmente dimostrare che molto era già stato scritto ed altrettanto rapidamente dimenticato.

Tamburino, dunque, ha appena messo le mani, anche se non se ne rende conto subito, nel crogiolo dell'eversione nera: un complicatissimo gioco di specchi, più o meno deformanti, che rimanda i bagliori di un passato nemmeno poi così lontano; un passato che si è depositato, anno dopo anno, strato dopo strato, in molti luoghi cari al patriottismo nostrano di sapore reazionario. Le caserme per esempio: in quella di Verona che ospita il reparto di artiglieria di stanza nel capoluogo veneto, l'ufficiale responsabile dell'ufficio I (Informazioni) è il colonnello Amos Spiazzi. Il reparto di Spiazzi è l'unico che non ha mai riconsegnato un codice segreto militare in disuso, detto Farilc 59, né comunicato il verbale della sua distruzione, così come chiesto quando il codice era stato ritenuto non più utilizzabile dallo Stato Maggiore dell'Esercito. Durante la perquisizione in casa Spiazzi, vengono ritrovati armi, molte, e simboli fascisti e nazisti. In aggiunta, proprio nella caserma di Verona, Roberto Cavallaro, che si spacciava per magistrato militare, aveva tenuto una delle sue illuminanti conferenze ai soldati. È Spiazzi a diventare presto l'ago della bilancia assieme a Cavallaro, il primo a rilasciare a Tamburino delle incredibili dichiarazioni. La Rosa dei Venti, racconta il giovanotto, aveva approntato da tempo i mezzi tecnici e le riunioni operative con ufficiali americani in attesa dell'ora X prevista per portare a termine un golpe che avrebbe cambiato radicalmente la situazione politica in Italia. Il quartier generale della Nato aveva avallato l'intera procedura operativa e il colpo di Stato, pronto nella primavera del 1973, sarebbe stato sospeso per un incidente. Ma l'organizzazione restava ben salda e pronta, come si dice. Vediamola nel dettaglio. Si sarebbe trattato di una specie di cervello centrale, assolutamente istituzionale, insiste Cavallaro, e dotato di legittimazione da parte dello Stato all'interno di accordi internazionali. Una super-struttura creata apposta per evitare turbative all'attività delle istituzioni. L'Organizzazione, con la o maiuscola, utilizzava gruppi paralleli, tra cui lo stesso Rosa dei Venti, come braccio armato. Ordine nuovo, La Fenice, i Mar, i Giustizieri d'Italia, tutte sigle conosciute dell'estremismo di destra violento ed implacabile, sarebbero state dunque la faccia di una stessa medaglia, ramificazioni di un potere occulto che sin dal 1945 avrebbe sorvegliato il buon corso dell'esperimento repubblicano a sovranità limitata.

Cavallaro spiega all'attonito giudice che l'Organizzazione possedeva almeno due strategie di intervento e che intendeva utilizzarle a seconda dei casi: una era quella che si poteva definire del golpe alla cilena, l'altra sarebbe consistita in una serie di episodi destabilizzanti che giustificassero un immediata necessità d'ordine. In una parola, la strategia della tensione. O se preferite la strategia del golpe permanente, secondo Cavallaro proprio la soluzione adottata nel caso Italia.

Dopo Cavallaro è Spiazzi a fornire alcune precise ammissioni: sì, esiste davvero un'organizzazione mista di civili e militari, ultimo anello interno di una serie di cerchi concentrici di cui i servizi segreti non rappresentano che un livello esterno, con l'obiettivo di sorvegliare l'andamento della politica nazionale, intervenendo quando fosse stato ritenuto necessario a fermare un'eventuale montante pericolo rosso. Ciò che tiene insieme la struttura è ovviamente l'anticomunismo, anche se sappiamo bene che le radici profonde del Sid parallelo, lo chiameremo così per comodità espositiva, forse un nome l'organizzazione non ce l'ha per davvero, stanno nel controllo del territorio italiano in pieno accordo con l'intelligence statunitense. L'indicazione perentoria di un nemico interno giustifica, in particolare, la possibilità successiva di prendere contromisure efficaci contro questa pretesa minaccia alla democrazia.

L'inchiesta sulla Rosa dei Venti divenne talmente importante in quel periodo da finire sui giornali per alcuni mesi. Tamburino scava così in profondità da far emergere nomi illustri perfino dell'industria italiana, quali Andrea Maria Piaggio, che aveva messo a disposizione svariate decine di milioni per finanziare i vari gruppi. Gli specchi continuano a rimandare immagini di volti noti e meno noti: il principe Junio Valerio Borghese, ad esempio, eroico comandante della Decima Mas fascista, che aveva tentato un golpe appena quattro prima nel 1970; Piaggio aveva fatto recapitare al Fronte nazionale del principe nero la bellezza di ottocento milioni.

Ma ciò che interessa a Tamburino sono le teste dell'Organizzazione e soprattutto coloro che avevano permesso a Spiazzi e Cavallaro di operare indisturbati. Passo dopo passo la minuziosa indagine approda direttamente a Vito Miceli e Gian Adelio Maletti, rispettivamente direttore del Sid (Servizio informazioni difesa, succeduto al Sifar, Servizio informazioni forze armate) e capo del reparto D. Spiazzi sostiene infatti che non può essere liberato dal segreto a cui è tenuto se non da un ufficiale dei carabinieri di grado superiore al suo. È per questo che si finisce al Sid. In realtà l'incarico di comunicare a Spiazzi che non solo deve tacere, ma anche temere per la propria vita se non chiude la bocca, verrà affidato ad un altro generale del Sid, Antonio Alemanno, che incontra il colonnello dell'esercito in questura a Roma alla presenza dello stesso Tamburino.

Nell'estate del 1974, intanto, la bomba di Piazza della Loggia a Brescia e quella nella galleria di San Benedetto Val di Sambro che aveva squarciato il treno Italicus, scuotono l'intero paese: è il segnale che qualcosa non va. In casa Sid cominciano dissapori e polemiche che finiranno per mettere in guai serissimi Miceli, più volte smentito da Maletti che sostiene di averlo informato in numerose occasioni alle attività eversive in corso in quel periodo in Italia. Miceli, su ordine di Tamburino, viene arrestato e incarcerato, ma non c'è sorte nella lunga catena di processi intentati durante la storia di questa tragica repubblica.

Il 14 Luglio 1978 la corte d'assise di Roma, che aveva letteralmente sottratto a Tamburino l'inchiesta sui fatti criminosi da lui condotta in mesi di febbrile agitazione, emette qualche condanna, davvero risibile, per mettere a posto un paio di coscienze indignate. Spiazzi viene condannato ad appena cinque anni di reclusione, Casucci ad un anno e sei mesi, gli altri imputati a pene ridottissime. Miceli viene addirittura assolto dall'accusa di favoreggiamento con la formula della non sussistenza del fatto; nel frattempo era già stato eletto come parlamentare nelle file del Movimento sociale italiano del vecchio camerata Almirante. Eppure Miceli, nell'udienza del 14 dicembre 1977, aveva risposto così alla domanda del giudice Abbate sull'esistenza di un doppio organismo parallelo al Sid ufficiale: "Lei in sostanza vuole sapere se esiste un organismo segretissimo nell'ambito del SID. Io finora ho parlato delle dodici branche in cui si divide. Ognuna di esse ha come appendice altri organismi, altre organizzazioni operative, sempre con scopi istituzionali. C'è, ed è sempre esistita, una particolare organizzazione segretissima, che è a conoscenza anche delle massime autorità dello Stato. Vista dall'esterno, da un profano, questa organizzazione può essere interpretata in senso non corretto, potrebbe apparire come qualcosa di estraneo alla linea ufficiale. Si tratta di un organismo inserito nell'ambito del SID, comunque svincolato dalla catena di ufficiali appartenenti al servizio "I", che assolve compiti pienamente istituzionali, anche se si tratta di attività ben lontana dalla ricerca informativa. Se mi chiedete dettagli particolareggiati, dico: non posso rispondere. Chiedeteli alle massime autorità dello Stato, in modo che possa esservi un chiarimento definitivo." Come De Lutiis nel suo famoso libro Storia dei servizi segreti in Italia, pubblicato nel 1984, sottolinea, citando Miceli, del Sid parallelo si aveva, o si poteva avere, ampia conoscenza. Ma l'imputazione originaria di cospirazione cessa di esistere con l'assoluzione del direttore del Sid e con essa finisce nell'oblio anche lo stralcio dell'istruttoria relativo a quella che Cavallaro aveva chiamato l'Organizzazione.

Oggi, a sentire la relazione di Aldo Giannuli, consulente tecnico della procura di Brescia che indaga sulla strage di Piazza della Loggia, l'Organizzazione ha finalmente nome, cognome, indirizzo, organico, scopi e strutture. Meglio così dopo tanti anni di silenzio.

La nostra storia, cominciata a ridosso della fine della Seconda Guerra mondiale, percorre un cinquantennio di bugie e di colpevoli ritardi nelle indagini, si incista nella memoria sottratta agli italiani e finisce dritta nel mare di sangue, questa è la tesi sostenuta da molti commentatori, versato a metà anni Settanta dalle frange dell'estremismo nero, abbandonate da quel potere costituito che le aveva volute complici di un progetto di eversione mai realizzato.

Eppure Miceli aveva chiaramente indicato i mandanti. Ed è terribile pensare che alcuni di loro sono probabilmente ancora seduti in Parlamento.

Mario Coglitore



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