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Da "Umanità Nova" n.40 del 10 dicembre 2000

Serbia
Un mutamento troppo rumoroso

I recenti avvenimenti Jugoslavi meritano un approfondimento maggiore di quello che è stato svolto frettolosamente dai media di regime che riflettevano la scoperta volontà delle classi dirigenti dell'italico belpaese di riprendere la trama dei buoni affari con Belgrado, interrotta a causa della guerra del 1999.

La diplomazia italiana, infatti, ha battuto le altre diplomazie europee nella corsa al riconoscimento della presidenza Kostunica, proprio a causa dei buoni uffici delle corporation italiche (FIAT e Telecom in testa) che, nel paese che fu del Maresciallo Tito avevano già impiantato solidamente i loro interessi fin dal tempo del regime a partito unico, continuando in seguito durante il regno dell'ufficialmente esecrato Milosevic.

In questa frettolosa corsa al riconoscimento del nuovo padrone della fragile unione serbo-montenegrina, si sono però notate delle differenze tra europei da un lato e americani dall'altro che forse vale la pena di approfondire. Madame Madeleine Albright, infatti, pur esprimendo la propria soddisfazione per la caduta di Milosevic, si è guardata bene dal proclamare la fine delle sanzioni anti-jugoslave che restano tuttora in vigore, mentre i suoi colleghi europei non hanno avuto un comportamento analogo. Si riflette in questa differenza di comportamenti la fondamentale divisione tra i capofila anglosassoni dello schieramento occidentale, i cui interessi sono stati pienamente soddisfatti dall'ordine post-bellico nei Balcani, e gli alleati europei, entrati in guerra malvolentieri e esclusivamente perché convinti che l'unico atteggiamento pagante fosse quello di seguire la coppia USA-Regno Unito in questa avventura, al fine di accaparrarsi una fetta consistente degli interessi di vario genere in gioco nei Balcani.

Quest'atteggiamento, di tipo pragmatico e servile non ha però dato i risultati sperati, dal momento che le danze nei Balcani vengono saldamente gestite dall'imperial diplomazia anglo-americana, tanto dal punto di vista politico che economico. Si può quindi capire come per le classi dirigenti europee, cornute e mazziate nel loro atteggiamento di remore pronte a divorarsi i resti del banchetto dello squalo yankee, fosse imprescindibile il verificarsi di qualche fatto nuovo che riaprisse almeno parzialmente i giochi e permettesse agli europei di avanzare qualche pretesa di risuddivisione del bottino.

Allo stato dei fatti l'unico fatto nuovo non poteva che essere la "democratizzazione" della Serbia, ossia la cacciata di Milosevic, ormai assurto al ruolo di demone balcanico, e la riammissione della Jugoslavia nel consesso dei paesi da integrare all'Occidente.

Gli Stati Uniti, viceversa, in questo momento non potevano che trovare assolutamente positiva la presenza di un regime "terrorista" nell'area, tale da giustificare lo schieramento di ingenti forze americane nel cuore del continente, garanzie della egemonia anglo-americana dal punto di vista dei buoni affari e cuneo puntato al cuore della Russia, gigante malato, ma pur sempre in grado di rappresentare un futuro fastidio per l'amministrazione imperiale.

L'impressione che non si può non avere dal comportamento americano in questa vicenda, è che essi avrebbero preferito un periodo più lungo di "instabilità" nell'area, prima di trovarsi a dover integrare anche la Jugoslavia nel sistema di alleanze in via di costruzione in Balcania.

Siamo del tutto convinti che l'egemonia americana nei Balcani e in Europa non sia minimamente minacciata dai recenti avvenimenti, ma d'altra parte siamo altrettanto certi che la continuazione del regno di Milosevic, con la conseguente secessione montenegrina, l'unificazione del Kosovo con l'Albania, e magari una bella guerra umanitaria per salvare gli ungheresi della Voivodina sarebbe stato uno scenario preferibile per gli strateghi geopolitici di Washington.

D'altra parte è chiaro da tempo che la strategia dell'amministrazione Clinton, a differenza di quella di Bush nel periodo precedente, si sia da tempo orientata verso la creazione di piccoli stati nell'area, incapaci di avere il minimo peso sulle decisioni che contano davvero, dipendenti dall'aiuto economico occidentale e pacificati esclusivamente dalla presenza di eserciti stranieri in loco.

In più, crediamo che con gli interventi nei Balcani, l'egemonia mondiale americana si sia dotata dello strumento ideologico del quale mancava fin dal tempo del crollo del blocco "comunista". I diritti umani e l'autodeterminazione dei popoli nella sua nuova veste di determinazione etnica del concetto, fungono benissimo a questo scopo e permettono agli USA una penetrazione ideologica nelle zone "sfigate" del mondo, paragonabile solo con quella raggiunta dagli stessi americani quando decisero di appoggiare il processo di decolonizzazione all'indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale.

Se questi sono gli approcci delle potenze imperialiste nei confronti della nuova situazione verificatasi nel cuore della Balcania, resta da leggere in modo attento e non ideologico gli avvenimenti dal punto di vista dei loro protagonisti: gli attori della tragicommedia jugoslava.

Con il rispetto dovuto a chiunque riesca a bruciare luoghi e simboli di un potere tanto detestato quanto arbitrario, va detto che la rivoluzione jugoslava è sembrata più che altro una crisi di governo un po' movimentata. Non credo si possa, infatti, descrivere come un cambio di regime una situazione dove il partito dell'ex presidente rimane saldamente al governo sia pure in condominio con l'ex opposizione, nessuno dei dirigenti politici, economici e amministrativi (tranne il capo dell'amministrazione doganale...!) è stato rimosso e il governo della Federazione viene guidato da Bulatovic, fedelissimo miloseviciano del Montenegro. Per quello che riguarda l'ex "tiranno", risulta che questi viva indisturbato nella sua residenza belgradese e si sia semplicemente dovuto liberare di figure impresentabili in qualsiasi contesto, come il figlio proprietario di equivoci locali notturni, trafficante di droga e contrabbandiere.

A questo quadretto si deve aggiungere il comportamento dell'Esercito Federale che durante le manifestazioni che hanno devastato il Parlamento e occupato la televisione pubblica non si è fatto vedere e, anzi, ha dichiarato per bocca del Capo di Stato Maggiore, ex fedelissimo di Milosevic, di riconoscere la vittoria di Kostunica e di mettersi a disposizione del nuovo capo.

Per quello che riguarda la temutissima polizia, descritta da tutti gli osservatori come un corpo d'élite dipendente direttamente da Milosevic, si è squagliata come neve al sole di fronte a cortei sicuramente decisi, ma non armati; il fatto stesso che la "rivoluzione belgradese" abbia fatto una sola vittima (morta d'infarto...!) la dice lunga sulla scarsa volontà della sbirraglia di sbarrare il passo ai fedelissimi di Kostunica.

Nel complesso, quindi possiamo affermare che abbiamo assistito a una sceneggiata balcanica dove ogni attore recita il suo ruolo, stando ben attento a non farsi troppo male.

Il cambio di cavallo a Belgrado, in realtà, era nell'aria da tempo, e i primi a desiderarlo erano proprio gli esponenti della neo classe capitalistica jugoslava, nonché gli esponenti di un esercito umiliato a più riprese sul campo, grazie ai fallimenti dovuti alla politica di potenza della cricca Milosevic. A differenza di quanto accaduto in paesi come l'Iraq, le ripetute sconfitte inflitte dagli occidentali e il profondo isolamento internazionale del paese, non hanno accresciuto il consenso attorno a Milosevic, ma lo hanno eroso in modo decisivo. Questo per il banale motivo che la Jugoslavia non è l'Iraq, ossia non si tratta di un paese a struttura clanica dove il Presidente altro non è che l'espressione del clan vincente. La Jugoslavia ha una struttura sociale sostanzialmente simile a quella dei paesi occidentali, sia pure con vertiginose sacche di arretratezza localizzate nelle campagne che, non a caso, sono la parte del paese rimasta fedele a Milosevic.

Quest'ultimo si è appoggiato fin dall'inizio della sua gestione su questa composizione sociale, titillandola nei suoi sentimenti più profondi, sintetizzabili nel revanscismo nazionalista serbo, quella parte di popolazione serba, per intenderci che ha sempre mal sopportato la Jugoslavia titina perché responsabile di aver limitato l'egemonia serba sul resto del paese.

Le classi che in concreto hanno beneficiato della presidenza Milosevic ossia i neo capitalisti locali, spesso ex funzionari di partito o serbo-americani rientrati in patria all'indomani della scomparsa di Tito, gli hanno alla fine voltato la faccia, valutando che l'isolamento dal Patto di stabilità balcanico e, più in generale, dai progetti economici e dai flussi monetari che stanno attualmente attraversando l'area, fosse esiziale per i loro profittti e per la loro stessa sopravvivenza in quanto classe. Nel caso non si fossero verificati fatti nuovi in grado di rompere l'isolamento, l'economia jugoslava sarebbe stata necessariamente costretta a trasformarsi in un capitalismo terzomondista a base criminale, dal momento che l'unico affare redditizio sarebbe stato il contrabbando. Formulazione economica, questa, troppo rischiosa sia per l'alto grado di concorrenzialità possibile su questo terreno, sia per la dipendenza troppo stretta degli imprenditori dalla volontà governativa. Il fatto che non pochi degli imprenditori jugoslavi abbiano fatto fortuna con il contrabbando, poi, non significa nulla: è noto che dietro ogni capitalista c'è un pirata, ma è altrettanto risaputo che il pirata diventato capitalista, vuole tranquillità dei suoi traffici, rispettabilità per sé e per la sua famiglia, e soprattutto non vuole che nuovi pirati possano turbare il tranquillo procedere dell'accumulazione.

In questo senso, non è poi così casuale che la prima mossa internazionale del neo Presidente, sia stata quella di aderire al Patto di Stabilità e la sua più grossa preoccupazione sia quella di inserire la Jugoslavia nel nuovo ordine economico balcanico.

L'esercito, da parte sua, aveva solo conti da far pagare al vecchio Presidente, dal momento che questi è riuscito nella discutibile impresa di ridurre l'Armata Jugoslava da una forza militare di tutto rispetto a un'accozzaglia mal pagata di soldati frustrati da quattro sconfitte consecutive.

Studenti e ceti medi urbani, infine, sono stati la leva di massa della protesta anti Milosevic, vuoi perché profondamente occidentalizzatisi negli ultimi anni, vuoi perché profondamente impoveriti da anni di inflazione galoppante, mancato pagamento degli stipendi nel settore pubblico e razionamenti di vario tipo dei beni di consumo. Non stupisce, poi, il silenzio operaio in questi ultimi avvenimenti: il proletariato jugoslavo aveva già perso il proprio protagonismo negli anni del titismo, schiacciato com'era tra il sindacato di stato e la cosiddetta autogestione che consisteva in realtà in un patto sociale dove veniva scambiata l'acquiescenza operaia con la possibilità per i lavoratori di gestirsi il proprio sfruttamento.

Non sorprende, dicevamo, che la reazione delle fabbriche agli sconvolgimenti in atto nel paese sia stata quella di chiudersi, cercando di salvare il salvabile nei termini di posto di lavoro, salario, sicurezza sociale. Il sindacato a livello nazionale ha infatti perso ogni importanza, venendo sostituito dalle strutture sindacali locali, incaricate della salvaguardia del minimo indispensabile per poter vivere. Ogni mutamento al vertice dello stato è diventato quindi un problema per gli operai serbi, a causa delle possibili ricadute che questo potrebbe avere su occupazione e salario. Ed è questo il motivo per il quale in ben poche case operaie serbe si sia brindato alla vittoria di Kostunica.

I prossimi mesi diranno se il tentativo di Kostunica di far rientrare la Jugoslavia nel gioco dei Balcani avrà o meno successo, per intanto si possono scorgere le direttrici principali della sua politica: apertura economica e diplomatica all'Occidente, conservazione della Federazione, rivendicazione di un ruolo nel Kossovo ma ammissione delle responsabilità serbe nel disastro dell'area, smantellamento di ciò che resta del capitalismo di stato e applicazione delle ricette neo liberali.

Per le popolazioni jugoslave, quindi, si tratta di saltare da un brace all'altra e, purtroppo, non si può nemmeno sperare che le lezioni di questo decennio abbiano definitivamente allontanato lo spettro del nazionalismo identitario dal paese e più in generale dall'area balcanica; le decine di migliaia di persone in piazza contro Milosevic, dal punto di vista ideale erano lì perché aveva perso le quattro guerre interjugoslave, non perché le avesse fatte.

A commento finale di questa descrizione nulla ci sembra più appropriato dei versi di quella canzone dei CSI che dicono:

Ci fotte la guerra che armi non ha
ci fotte la pace che ammazza qua e là
ci fottono i preti, i pope e i mullah
l'ONU, la NATO, la civiltà.
(CSI-Cupe vampe)

Giacomo Catrame



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