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Da "Umanità Nova" n.40 del 10 dicembre 2000

Eutanasia. Una dolce morte

Nei giorni scorsi la camera bassa olandese ha approvato una legge che depenalizza l'eutanasia. Si prevede che a breve anche il senato di quel paese approverà definitivamente il provvedimento, che diverrà dunque operativo. In realtà in alcuni altri stati del mondo l'eutanasia è tollerata (Svizzera, Svezia, Belgio, Colombia) o, è il caso dell'Oregon, negli Stati Uniti, è legale. Mi pare che come al solito i vari media, nell'intento di dare notizie "di immagine" sviino quello che è il vero problema. Non mi dilungherò dunque troppo sulle varie questioni morali e legali che la faccenda pone. Anche se di acchito mi verrebbe da dire che senza dubbio è più confacente all'idea di società civile il fatto che un essere umano sofferente senza speranza di guarigione abbia il diritto di decidere se continuare una sofferenza per lui inutile, o morire decentemente. Credo che questo sia un problema attuale per chi si è trovato a vivere l'avventura di assistere malati terminali. Ma mi rendo conto che si pone il solito problema delle decisioni in casi del genere. A tavolino siamo tutti bravi a pensare e decidere. Molto meno lo siamo quando siamo in una condizione estrema come può essere quella della finale sofferenza... E d'altro canto lascio certi tipi di preoccupazione a chi ha una visione di fiducia nell'istituzione e ritiene dunque che sia a quel livello giusto pensare per tutti i cittadini ciò che è lecito o non lecito fare. Vorrei evidenziare per il momento solo due aspetti, semplici, rimandando il dibattito su questioni per me più annose a altri momenti e a persone più addentro di me in materia etica e giuridica.

Primo punto: come al solito c'è una forbice di non poco conto tra ciò che si dice e ciò che si fa. Qualunque medico o infermiere sa oggi che nella pratica ciò che succede è che quando un malato terminale soffre in modo definitivo e irrimediabile la pratica clinica più decente e coscienziosa si attua sedando il più possibile il dolore, intendo quello fisico. Ma a dimostrazione di due aspetti che ho sempre sostenuto da queste pagine e altrove, l'arma principale che abbiamo in questi casi, malgrado la scienza abbia progredito in modo vertiginoso, è la buona vecchia morfina, conosciuta da millenni. Certo, se ne è raffinata la preparazione e la disponibilità farmaceutica, ci sono altri analgesici, ma alla fine si utilizza sempre quella. Credo che la recente maggiore liberalizzazione attuata dal ministro Veronesi, uomo che conosce bene questi problemi, in merito della prescrizione della morfina ai malati terminali da parte di medici e istituzioni la dica lunga in merito. Ora, l'uso della morfina ci pone davanti al fatto che in natura corpo e psiche, dolore fisico e sofferenza psicologica, sono assolutamente unite in un legame inscindibile, che è bene rappresentato nell'unità che definiamo essere umano. La morfina infatti non seda solo il dolore fisico, tra l'altro spesso in modo assai efficace. Presenta anche il vantaggio, in questi casi importante, di obnubilare la psiche, di dare un senso di piacevole distacco. In qualche modo aiuta a curare (e si badi bene che curare non deve essere usato nell'accezione di "guarire", aspetto semantico che i medici troppo spesso dimenticano) anche l'"anima", perché toglie col dolore fisico anche l'angoscia dello stesso, e distacca dalla realtà quello che basta a "distanziare" il malato dalla sofferenza e soprattutto dalla paura della stessa. In qualche modo, dunque, la morfina astrae dunque già il malato dalla sua triste realtà, come in una sorte di anticamera della morte, almeno per alcune ore al giorno. Inoltre c'è da dire che la morfina, che viene in questi casi, anche per ragioni tecniche sulle quali non mi dilungo, viene di solito somministrata in questi casi in dosi crescenti. La morfina ha come effetto collaterale la possibilità di indurre blocco dei centri nervosi che presiedono alla respirazione, e dunque di indurre la morte. Ora, non mi risulta che, senza arrivare mai a pensare di somministrare dosi mortali, questo assolutamente no, e deve essere ben chiaro, ci si preoccupi tuttavia troppo, quando un malato cui si è somministrata morfina in dosi crescenti (si tratta ovviamente di malati in condizioni fisiche non certo brillanti) cessa finalmente le proprie sofferenze, se la morte sia sopravvenuta per "cause naturali" o sia stata in qualche modo indotta o facilitata dalla somministrazione dei farmaci stessi. Questo succede tutti i giorni normalmente, e tra l'altro non solo rispetto alla morfina; per esempio anche a fronte di terapie antitumorali estremamente tossiche, ma che d'altra parte vengono riconosciute come le uniche possibili a quel punto. Spesso questo avviene con piena coscienza e approvazione del malato e dei suoi familiari... Dunque verrebbe da dire: dove sta il problema? Almeno da un punto di vista pratico (non certo da quello etico, che rimane sempre aperto) non si può fare a meno di considerare che proprio quando le istituzioni pretendono di legiferare e inquadrare con regole la pratica corrente, cominciano le complicazioni, gli arroccamenti. Insomma, provvedimenti che vorrebbero rendere chiare le cose, non fanno altro che complicarle. Come spesso capita, se siamo chiamati a rilasciare dichiarazioni ufficiali su ciò che facciamo normalmente tutti i giorni, spesso in nome dell'etica e della chiarezza, non facciamo altro che distorcere la realtà, con buona pace della chiarezza, che su questi aspetti come su altri, sarebbe invece fondamentale.

Da questo aspetto che ho cercato di evidenziare nasce il secondo punto che volevo toccare, forse anche più dolente e confuso del primo. Nella società della globalizzazione, del consumismo e dell'immagine, non siamo assolutamente preparati a affrontare i problemi importanti che la nostra esistenza pone. Per esempio, per citarne due tra i primi che vengono in mente, la nascita e la morte. Restano misteri dei quali i laici non amano occuparsi, delegando alle varie religioni la specialità, con risultati che anche le posizioni che tempestivamente ha assunto la chiesa cattolica in merito proprio all'argomento che sto trattando, denotano uno squallore ideologico e una tristezza creativa indicibili. Il risultato è che la morte, ahimé inevitabile, ci coglie assolutamente impreparati, sia quando si tratta della nostra, sia quando si tratta di assistere, sotto ogni punto di vista, chi sta affrontando un passo tanto difficile. Da qui le posizioni esageratamente radicali e infantili che si assumono di fronte al problema. A questo si aggiunga poi il fatto che nessuna scuola, nessuna università, nessuna istituzione, si pone il problema di attrezzare i medici e gli operatori sanitari, che sono chiamati per necessità professionale a occuparsi attivamente della questione, almeno a grandi linee. Quindi proprio chi potrebbe guidare gli atteggiamenti e i comportamenti da assumere in situazioni difficili, in realtà non solo non è assolutamente preparato a farlo, ma addirittura, proprio in quanto stressato dall'affrontare continuamente problemi troppo grandi per la sua preparazione, sviluppa un'arte di arrangiarsi che raramente conduce a riflessione appropriata con conseguenti opportuni comportamenti. Spesso purtroppo si sfocia in un umanissimo quanto infantile atteggiamento di apparente nonchalance ostentata, con estremi che arrivano alla malasanità, che certamente non sono di conforto a chi è costretto questa volta a occuparsi di quanto aveva esorcizzato per tutta l'esistenza. Troppo preoccupati dell'etica, non si vedono dunque gli aspetti più "banali", che sono quelli tuttavia che rendono o non rendono un ambiente di sofferenza e di morte umano come e quanto sarebbe necessario. Perché non parlare di questo prima del resto?

Paolino



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