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Da "Umanità Nova" n.41 del 17 dicembre 2000

È morto Gianfranco Bertoli

A fine novembre è morto Gianfranco Bertoli. Il suo nome era balzato agli onori delle cronache il 17 marzo 1973, quale autore di un attentato in via Fatebenefratelli a Milano, nel cortile della questura. Nel corso dell'inaugurazione di una lapide alla memoria del commissario Luigi Calabresi, l'assassino del compagno Giuseppe Pinelli, presente il ministro dell'Interno Mariano Rumor, Bertoli lancia una bomba che però non colpisce il ministro ma bensì 4 innocenti passanti, uccidendoli.

Bertoli si proclama immediatamente anarchico e sostiene di aver voluto, con il suo gesto, uccidere Rumor per vendicare l'assassinio di Pinelli. Netta fu immediatamente la condanna etica e politica del gesto da parte di tutte le componenti del movimento anarchico organizzato di allora: in un comunicato congiunto la Federazione Anarchica Italiana, i Gruppi Anarchici Federati e i Gruppi d'Iniziativa Anarchica ribadirono la distanza incolmabile che separa la pratica anarchica dai gesti di violenza indiscriminata, che colpiscono vittime innocenti, come quello di Bertoli. Ma se piena identità di vedute vi fu nel movimento anarchico sulla condanna del gesto, non altrettanta vi fu su chi fosse l'autore. Taluni infatti ritennero che Bertoli fosse un provocatore, prezzolato dai servizi e collegato con i fascisti, il cui gesto si inseriva in quella strategia della tensione che fascisti e settori dello stato (politici, militari, servizi) andavano attuando in complicità con CIA e NATO per imprimere una svolta radicalmente autoritaria e golpista. Questa tesi, peraltro, era sostenuta anche da tutta la stampa si sinistra e dalla stessa magistratura. Altri compagni ritennero invece che le prove portate a sostegno della tesi di Bertoli fascista fossero inconsistenti, e non vi era motivo di dubitare della buona fede dell'autore del pur deprecabile attentato.

Bertoli aveva un passato contraddittorio: militante del PCI e informatore dei carabinieri negli anni '50, piccolo delinquente, tossicodipendente, qualche frequentazione di ambienti anarchici.

Al processo ha un comportamento di grande dignità negando il coinvolgimento di altri nell'attentato e assumendosi in prima persona tutte le responsabilità. Condannato all'ergastolo, inizia un processo di ripensamento del suo gesto, che lo porterà a condannare in maniera chiarissima e inappellabile la violenza indiscriminata. Inizia una fitta corrispondenza con molti compagni, e comincia a collaborare con "A - rivista anarchica", scrivendo articoli, alcuni di notevole spessore teorico, su svariati temi, dalla condizione carceraria all'analisi della situazione mediorientale (alcuni di questi articoli sono raccolti nel libro "Attraversando l'arcipelago", edizioni Senzapatria).

Bertoli attraversa nelle carceri tutta l'esperienza delle lotte e delle rivolte della fine degli anni '70. Analizza il ruolo che vi giocano le Brigate Rosse, dalle quali, sostiene, è emarginato e perseguitato per le dure critiche rivolte ai loro modi autoritari ed egemonici sulle lotte dei detenuti.

Dopo numerosissimi anni di detenzione e isolamento Bertoli riesce finalmente ad ottenere un regime di semilibertà. Ripiomba immediatamente nella tossicodipendenza da eroina. È di quegli anni un libro-intervista a pagamento ("Memorie di un terrorista", edizioni Tracce) in cui Bertoli sostiene che i suoi rapporti con le Brigate Rosse erano idillici e in cui si slancia in sperticate lodi dell'amministrazione carceraria, dei direttori di carcere e degli assistenti sociali, che lo averbbero trasformato in un uomo "nuovo".

Le sue continue richieste di soldi per la droga gli alienano molte amicizie con compagni che lo avevano aiutato negli anni più duri della sua detenzione.

Recentemente nuove accuse gli arrivano da pentiti fascisti, quali Digilio e Siciliano, testi chiave delle inchieste sullo stragismo nero e il golpismo in Italia.

Al nuovo processo che si tiene sulla strage di via Fatebenefratelli vengono condannati per complicità con Bertoli esponenti di primo piano dell'eversione nera. La tesi della magistratura è che l'attentato sia stato ordito negli ambienti ordinovisti per punire Rumor, colpevole di essersi "tirato indietro" nell'attuazione del golpe dopo la strage di piazza Fontana. Le accuse dei pentiti ripropongono la tesi del Bertoli "fascista" e "agente dei servizi". Malgrado le testimonianze dei fascisti presentino numerose contraddizioni, Bertoli si rifiuterà di testimoniare al processo. Più tardi si giustificherà dicendo che la mancata testimonianza era dovuta alla sua impossibilità a parlare sotto l'effetto della droga. Tenterà anche il suicidio come gesto estremo per discolparsi dalle accuse di essere fascista.

Ha continuato a dichiararsi anarchico fino all'ultimo. È stato seppellito per sua esplicita volontà con i funerali religiosi: nella bara ha voluto un crocefisso e la bandiera degli ultras del Livorno.

Chi era veramente Gianfranco Bertoli? Un fascista, un agente dei servizi? Un compagno, sebbene avesse compiuto un errore tragico e imperdonabile? Un compagno caduto in qualche trappola dei servizi che lo avrebbero strumentalizzato ed usato? Il suo difficile vissuto personale non può aiutarci a dare una risposta certa, univoca. Probabilmente la verità è calata nella fossa con lui.

L'incaricato



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