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Da "Umanità Nova" n.01 del 14 gennaio 2001

Armi all'uranio
Assassini e bugiardi

È scoppiato con grande clamore il "caso uranio" di cui avevamo parlato approfonditamente su "UN" del 19 novembre. Cerchiamo però di fare un po' di chiarezza poiché il gran polverone di questi giorni rischia di provocare una grande confusione. Innanzitutto bisogna ribadire che fin dall'autunno 1995 tutti sapevano dell'uso dei proiettili all'uranio in Bosnia. È vero che gli americani non hanno mai voluto dire con esattezza quante bombe all'uranio impoverito (Du) hanno usato durante la breve campagna aerea contro i serbo-bosniaci ma è altrettanto vero che hanno ammesso, quasi da subito, che le avevano usate. Ancora più clamorosa è la menzogna dei politici e dei militari italiani rispetto alla guerra del Kosovo, considerato che la questione dei proiettili all'uranio era stata affrontata durante le quotidiane conferenze stampa della NATO e tutti ricordano che sulla questione nacque già verso la metà di aprile una dura polemica fra pacifisti e Pentagono. D'altra parte tutti sapevano che l'aviazione americana ha in dotazione grandi quantità di proiettili Du, e che li aveva usati massicciamente nella guerra del Golfo, come tutti sapevano che i famosi "killer" dei carri serbi, gli elicotteri Apache e i bombardieri A-10, tanto propagandati durante i primi giorni di guerra, erano tali proprio perché sparavano proiettili speciali capaci di perforare le più resistenti corazze.

È bene poi sottolineare che la contaminazione della Bosnia fu inutilmente denunciata nell'agosto 1998 da un'associazione serbo-bosniaca. In quell'occasione si parlò di aborti spontanei, nascite premature e malformazioni alla nascita, oltre che di uno aumento di mortalità fra il bestiame. Il responsabile dell'Associazione denunciò anche che sul monte Romanjia era stata misurata una radioattività quasi doppia di quella naturale. È strano che nessuno riprenda in mano quella denuncia.

I generali italiani si difendono dalle accuse dicendo che non sapevano che gli americani avessero usato "così tante" bombe all'uranio. In realtà la questione è un'altra: le forze armate italiane sono assolutamente impreparate a contrastare le conseguenze di una guerra nucleare, batteriologica e chimica come quella che si configura nei territori bosniaci e kosovari. Ammettere che in Bosnia e Kosovo ci potesse essere un rischio NBC voleva dire di fatto ritirare i soldati dalle aree contaminate e questo, evidentemente, non era politicamente possibile. Ma ammettere il rischio uranio voleva anche dire ammettere i rischi per le popolazioni, voleva dire ammettere che per "liberare" bosniaci e kosovari si era ricorsi ad armi che ne avevano contaminato per sempre città e campagne, voleva dire interdire il ritorno alle proprie case di decine di migliaia di persone, voleva dire destinare risorse notevoli all'opera di tutela delle popolazioni. Perché se le guerra era umanitaria, come sosteneva la retorica guerrafondaia, lo doveva essere fino in fondo.

Ci pare significativo rilevare che quando, nel febbraio 2000, il segretario della NATO rispose ad una richiesta del segretario dell'ONU Annan, riferendo di 100 missioni durante le quali erano stati sparati 31mila proiettili, contenenti circa 10 tonnellate di Du, il responsabile della tasck force ambientale dell'ONU in Kosovo, il finlandese Haavisto, chiese che le zone colpite fossero recintate e interdette all'accesso per lo meno ai bambini. Naturalmente nessuno gli diede retta. Oggi è ancora Haavisto che denuncia i possibili pericoli per le popolazioni locali e i militari della forza multinazionale.

Concludiamo segnalando che le commissioni governative di inchiesta hanno la naturale tendenza ad insabbiare tutto. Ricorderemo quella nominata dopo lo scandalo delle torture in Somalia, presieduta da un uomo di sinistra, il costituzionalista Gallo, che finì i suoi lavori giustificando i generali italiani. Ci meraviglieremmo se quella presieduta da Mandelli arrivasse a conclusioni diverse.

Antonio Ruberti



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