![]() Da "Umanità Nova" n.02 del 21 gennaio 2001 Iraq 2001: la guerra infinitaNella notte tra il 16 ed il 17 gennaio di 10 anni fa un mare di bombe, di fuoco, di distruzione si riversò sull'Iraq, sul Kuwait, portando distruzione e morte. Due mesi dopo, alla fine di febbraio, la guerra guerreggiata era terminata ma ne iniziava un'altra, a "bassa intensità" fatta di embargo, fame, malattia e periodici ulteriori bombardamenti. Questa guerra non è mai finita. Le vittime, soprattutto bambini, sono state quasi un milione.
La retorica della guerra "umanitaria", sperimentata con indubbia efficacia nel recente conflitto in Kosovo non si applica all'Iraq, dove l'ingerenza trova la propria "giustificazione" come operazione di polizia internazionale. Le TV ed i giornali ci hanno pertanto risparmiato le immagini dello strazio iracheno: gli ospedali senza medicine, la fame, la miseria. Inutili alla macchina propagandistica rischiavano di risultare controproducenti. Quella che venne a torto definita la prima guerra "in diretta" risultò del tutto invisibile. Tutti eravamo incollati alla TV in quelle tragiche notti di 10 anni fa: come dimenticare il cielo nero su Baghdad attraversato dai lampi dei missili? Eppure oggi in modo non meno nitido di allora sappiamo che quelle immagini fredde dal sapore quasi lunare non facevano che rendere ancora più buia la notte che ci circondava. Solo il "nemico", il terribile Saddam, è stato continuamente mostrato in questi dieci anni, perché era l'icona perfetta della guerra "giusta", della guerra combattuta per un "ideale". Eppure, quando, nel febbraio del '91, le truppe americane interruppero la loro avanzata verso Baghdad e venne procrastinato l'embargo economico verso l'Iraq, divenne del tutto chiaro che, nonostante la retorica che aveva preceduto, accompagnato e seguito le operazioni nel Golfo persico, il novello Saladino Saddam Hussein certo non era tra gli obbiettivi reali dell'operazione "Tempesta nel deserto". Spodestare con la forza Hussein avrebbe significato allora e, probabilmente, ancora oggi, dare forza alle opposizioni sciite filoiraniane ed a quelle curde. Dieci anni orsono, interrompendo la loro avanzata ormai inarrestabile verso Baghdad, gli americani consentirono al dittatore iracheno di soffocare nel sangue le rivolte degli sciiti e dei curdi, rispettivamente al sud ed al nord del paese. Il tutto con buona pace di chi in Europa esercitava le fini arti della dialettica per decidere chi tra i due contendenti fosse il meno peggiore. Può apparire paradossale che la politica estera americana degli ultimi anni abbia di fatto favorito e fors'anche consolidato il regime di quel Saddam Hussein che all'opinione pubblica statunitense in particolare ed a quella occidentale in generale era indicato come un nemico pericoloso. Pericoloso non solo per gli interessi americani ma anche e soprattutto per i valori di democratica, civile e pacifica convivenza tra i popoli dei quali l'ONU pretende di farsi garante. Se tuttavia si esamina più da vicino la questione, il paradosso non è che apparente: non sempre è utile annientare un nemico, poiché in certi casi può essere di gran lunga più produttivo tenerlo sotto tiro senza distruggerlo. L'espressione più usata dai rappresentanti degli USA ed della Gran Bretagna all'assemblea delle Nazioni Unite per giustificare il perdurare delle sanzioni all'Iraq è, non a caso, "mantenere Saddam nella sua gabbia". Peccato che nella stessa gabbia soffrano da ormai 10 anni anche 22 milioni di iracheni. Persino la formula adottata da un paio d'anni del cosiddetto "Oil for food", ossia la delibera ONU che consente all'Iraq di vendere petrolio per comperare cibo e medicine, sebbene abbia dato una boccata d'ossigeno alle stremate popolazioni irachene, di fatto non è che l'ennesimo cappio al collo imposto all'Iraq. Un terzo dei proventi della vendita di questo petrolio serve a pagare il debito di guerra con il Kuwait, un altro terzo finanzia le operazioni ONU in territorio iracheno e solo il terzo rimanente serve all'acquisto di generi di prima necessità. Una vera e propria beffa che, tra l'altro, non è nemmeno un fatto acquisito perché l'ONU concede il permesso all'"Oll for food" per sei mesi alla volta e può, se vuole, revocarlo in ogni momento. Ma nulla ferma l'accanimento dei governi inglese ed americano: neppure l'opposizione crescente di Francia, Russia e Cina, gli altri tre membri del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, neppure le denunce sulla mortalità infantile diffuse nel luglio e agosto scorsi dal settimanale "Newsweek" e dal "Financial Times". Gli Stati Uniti, le cui necessità di approvvigionamento petrolifero dipendono per un buon cinquanta per cento dalle importazioni, e che da sempre mirano a garantirsi il controllo dello sfruttamento delle risorse petrolifere, hanno grande interesse a mantenere sotto pressione l'Iraq, senza tuttavia compromettere i delicati equilibri del Medio Oriente. Non dimentichiamo inoltre la pressione indiretta sui paesi europei il cui bisogno di risorse petrolifere non è minore di quello statunitense. Non è certo un caso che l'unico paese europeo che allora ed in questi 10 anni si è schierato in modo netto a fianco degli americani sia stata la Gran Bretagna, ossia l'unico paese che ha riserve petrolifere proprie nonché la necessità di mantenere alto il prezzo del greggio per sostenere il petrolio del mare del nord i cui costi estrattivi sono più alti di quelli del Medio Oriente. Quando due anni orsono ripresero (e mai si interruppero) i bombardamenti sull'Iraq, i mezzi di comunicazione insistettero parecchio nell'indicare quale fattore principale del rapido accentuarsi delle tensioni tra Stati Uniti ed Iraq la necessità del presidente americano Clinton di far rapidamente dimenticare lo scandalo sexygate. Resta il fatto che, sebbene negli Stati Uniti il comportamento sessuale dei politici sia tanto importante da condizionarne la carriera, tuttavia il sexygate è ormai dimenticato mentre continuano a rullare i tamburi di guerra. Continua inoltre a pesare la crescente richiesta di finanziamenti da parte degli apparati militari statunitensi, desiderosi di aggiornare gli armamenti. All'epoca il Pentagono valutava in trecentocinquanta miliardi di dollari l'investimento indispensabile per nuove armi e più sofisticati strumenti di comunicazione. È ovvio che per il Pentagono una guerra sempre aperta, anche se di bassa intensità, è il modo migliore sia per sperimentare nuove tecnologie sia per convincere l'opinione pubblica della necessità di nuovi investimenti nel campo degli armamenti. 10 anni orsono la guerra guerreggiata fece duecentomila vittime, negli anni successivi, la denutrizione e la mancanza di medicinali hanno mietuto altri ottocentomila morti tra la popolazione civile. Questi morti non sono un "casuale" effetto secondario di una guerra che aveva ed ha altri obiettivi: questi morti sono uno degli scopi principali del perdurare dell'embargo e dei bombardamenti. Questo è un mondo in cui le tre persone più ricche hanno tanta ricchezza quanta, messi insieme, i 43 paesi più poveri del mondo (quasi tutti in Africa); dove un quinto dell'umanità gode dei quattro quinti dell'intero reddito mondiale, e quattro quinti godono del restante 17%; e un quinto della popolazione mondiale, un miliardo di persone, hanno un reddito medio di meno di un dollaro al giorno. In questo mondo i gendarmi del Nord, Stati Uniti in prima fila, hanno bisogno di uno spettacolo di terrore e morte come quello iracheno, hanno bisogno dei bimbi morti di leucemia, di una popolazione affamata e stremata. Che Saddam resti pure al suo posto, la sua destituzione non è mai stata nell'agenda degli USA, che a dittature come la sua si sono appoggiati e si appoggiano in tutto il terzo e quarto mondo. Invece le sofferenze dei civili rappresentano un costante monito verso i quattro quinti del pianeta, verso i vinti ed i piagati, perché non alzino la testa, perché non provino a rivendicare quei diritti universali ormai lettera morta delle convenzioni internazionali. Per questo motivo oggi, come già nel '91, spentisi i riflettori sullo spettacolo bellico, la guerra continua. Con altri mezzi. Maria Matteo
|
fat@inrete.it
Web: uenne@ecn.org