unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.04 del 4 febbraio 2001

Israele e Palestina. Un conflitto nazionalista
Alain Bihr sulle derive identitarie e comunitariste

Pubblichiamo questo articolo di Alain Bihr sulla questione palestinese girato nella mailing list a-infos. Pur giudicandolo in gran parte condivisibile, ribadiamo la nostra convinzione che la questione palestinese non potrà essere risolta con la costituzione di un nuovo Stato ma con un progetto federalista e autogestionario capace di sconfiggere gli opposti nazionalismi.

A proposito del conflitto israelo-palestinese

Gli ultimi sviluppi del conflitto israelo-palestinese e le loro ripercussioni in Francia meritano alcune riflessioni. Essenzialmente per evitare gli errori di analisi fatti da un buon numero di osservatori, compresi alcuni di coloro che militano nelle nostre file. È vero che si tratta di una questione complessa che non si presta alle semplificazioni alle quali sono abituati la maggior parte dei giornalisti e, sfortunatamente, dei militanti.

Un conflitto nazionalista

Innanzitutto occorre ricordare che, contrariamente a quanto potrebbero far credere alcuni sviluppi recenti, non si tratta di un conflitto di religione (ebrei contro musulmani) ma di un tipico conflitto tra due principi nazionali. Tra uno Stato-nazione già costituito (Israele) e un popolo (palestinesi) che cerca proprio di costituirsi in nazione al fine di creare il proprio Stato. Conflitto la cui posta reale immediata è l'appropriazione della terra e dell'acqua mentre quella più generale è l'occupazione di una posizione geopolitica, geoeconomica e strategica nel cuore del Medio Oriente. Che questo conflitto essenzialmente politico si raddoppi di una dimensione religiosa si spiega esattamente con la natura dello scontro. Il fatto è che non esiste creazione di una nazione (creazione di una entità nazionale) senza nazionalismo e che ogni nazionalismo deriva da un feticismo (da una sacralizzazione, da una assolutizzazione) che trova naturalmente nel linguaggio religioso (la mitologia, i simboli, i ricordi, gli affetti che l'accompagnano) abbondante materia per alimentarsi. Questo vale per il conflitto fra israeliani e palestinesi come per certi conflitti balcanici (tra serbi e croati, tra serbi, croati e bosniaci, tra serbi e kosovari, tra greci e albanesi, tra greci e turchi) ma anche per altri conflitti nazionalisti che si sviluppano qua e la nel mondo (tra irlandesi e inglesi, tra russi e ceceni, tra indiani e pakistani, ecc.).

Dimenticare la natura fondamentalmente politica (nazionale e nazionalista) del conflitto e trasformarla in un conflitto religioso, significa ingannarsi. Significa confondere la posta in gioco reale del conflitto con il linguaggio attraverso il quale questa posta è espressa dai protagonisti. Al contrario, percepire la sua natura eminentemente politica significa evitare di rimanere vittime delle illusioni veicolate dall'uno e dall'altro campo. Significa comprendere che, per quanto oggi esso sia oppresso, il nazionalismo palestinese non è migliore del nazionalismo israeliano. Semplicemente perché ogni nazionalismo è, per definizione, potenzialmente oppressore, in quanto negatore di ciò che non è nazionale, di ciò che è esterno e straniero e a fortiori di tutto ciò che è ostile al principio nazionale che esso difende. È per questo che coloro che lottano per l'emancipazione umana non possono che dichiararsi ostili ad ogni principio nazionale, alla divisione dell'umanità in Stati-nazione, e si guardano bene dallo sposare la causa di qualsiasi nazionalismo.

Distinguere fra oppressi e oppressori

Questo significa sostenere che, nel conflitto israelo-palestinese, occorre mantenere l'equidistanza fra le due parti? Si... se le due parti si trovano in condizioni di parità. Il fatto è che oggi questa parità non c'è: dei due nazionalismi che si affrontano, uno è oppressore e l'altro è oppresso. Bisogna in effetti ricordare:

* che da più di trenta anni, con il sostegno attivo degli Stati Uniti e l'indifferenza generale della "comunità nazionale" (Stati arabi inclusi), Israele viola la legalità internazionale occupando i territori (Cisgiordania, striscia di Gaza) che ha conquistato durante la guerra dei "sei giorni" (giugno 1967);

* che, da allora, in particolare dopo il ritorno della destra israeliana (appoggiata dall'estrema destra religiosa) al potere nel 1977, questi territori sono stati sistematicamente colonizzati dai coloni israeliani, al prezzo dell'accaparramento dei migliori terreni, dell'espropriazione manu militari della popolazione palestinese, della distruzione delle loro case e dei loro villaggi;

* che, dopo la conclusione dei famosi accordi di Oslo (settembre 1993) considerati come capaci di aprire la strada alla pace, la colonizzazione si è ancora accentuata e il numero dei coloni israeliani è raddoppiato, tanto da raggiungere oggi le 200.000 persone, in modo da trasformare i restanti territori, sui quali i palestinesi dovrebbero costruire il loro Stato, in riserve di mano d'opera per l'economia israeliana, mentre i palestinesi sono incapaci di iniziare e di condurre da soli una politica autonoma e coerente di sviluppo.

Il tutto con la complicità involontaria dell'Autorità palestinese, pronta a contentarsi di regnare con le sue forze di polizia su un territorio a pelle di leopardo. È in questo regime che ricorda il defunto sistema sudafricano dell'apartheid, che bisogna ricercare la fonte della determinazione e della disperazione che animano l'attuale rivolta della popolazione palestinese. In queste condizioni è chiaro che non si potrà arrivare a nessuna pace senza il rispetto della legalità internazionale e, conseguentemente, senza il ritiro di Israele sulle frontiere del 1967, cioè senza lo smantellamento di tutte le colonie in Cisgiordania e Gaza, e senza il riconoscimento del diritto dei palestinesi a costituire uno Stato sul resto della Palestina già affidato al mandato britannico. Il tutto conformemente alla risoluzione 242 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite che, finora, Israele non ha mai voluto riconoscere.

Contro le repliche identitarie

Si sarà compreso che la posizione precedente, favorevole alla causa palestinese, non sposa questa causa che limitatamente al fatto che è quella di un popolo oppresso, colonizzato, contro lo Stato colonizzatore. Essa non solidarizza con la sua dimensione nazionalista, tantomeno con quella religiosa.

Riguardo poi al modo con il quale la nuova Intifada palestinese e la sua repressione da parte della force israeliane si sono riflesse in seno all'opinione pubblica francese (e più in generale occidentale), occorre denunciare la doppia deriva identitaria, comunitarista, scelta sia dalle comunità ebree che da quelle degli ambienti dell'immigrazione (specialmente maghrebini) o almeno da alcune loro organizzazioni o istanze rappresentative. Da una parte, si è sentito il CRIF (il consiglio rappresentativo delle istituzioni ebree in Francia) invitare tutti gli ebrei a solidarizzare con l'attuale politica israeliana; dall'altra parte si assiste alla mobilitazione di certe componenti dell'immigrazione maghrebina su una base confessionale che sfocia in manifestazioni nelle quali si odono slogan antisemiti, alcune volte seguiti da atti come l'aggressione a luoghi di culto israeliti. Atti evidentemente inammissibili, facilitati però dal modo con il quale i portavoce della comunità israelita hanno invitato a solidarizzare con le esazioni compiute dall'esercito israeliano, come certi raid contro villaggi popolati da cittadini israeliani arabi.

Nel momento che molti si felicitano della crisi dell'estrema destra israeliana, a seguito del conflitto fratricida che l'ha divisa e globalmente indebolita negli ultimi due anni, queste derive comunitariste dovrebbero suonare come un campanello d'allarme. Esse la dicono lunga sul modo con il quale processi profondi da tempo all'opera nelle società capitaliste sviluppate vi portano contrazioni identitarie, a base etnica o religiosa, che alimentano proprio l'estrema destra. Contrazioni il cui potenziale criminale non è più da dimostrare, dopo quello che si è visto accadere negli ultimi anni in Bosnia, in Cecenia e altrove. Esse ci dovrebbero insegnare o piuttosto ricordare che non è ancora tempo di tranquillizzarci: questa follia non si espande solo sugli schermi dei nostri televisori, queste ultime settimane essa è stata direttamente alle nostre porte.

Alain Bihr

traduzione di Denis



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org