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Da "Umanità Nova" n.06 del 18 febbraio 2001
Elezioni in Israele
Piovono pietre
Proprio alla vigilia delle recentissime elezioni in
Israele per la poltrona di capo del governo (in base all'originalissima legge
elettorale, infatti, si elegge direttamente il Premier separatamente dal
Parlamento, la cui scadenza naturale sarà l'anno prossimo, a meno che
non si formi un governo entro 90 giorni, nel cui caso si rivoterà solo
per la Knesset, dove attualmente i due più grossi partiti sono insieme
minoritari rispetto alla miriade di partitini decisivi per qualsiasi coalizione
di destra o di sinistra), ho avuto modo in un convegno palermitano di discutere
a lungo con intellettuali israeliani e palestinesi sul processo di pace, sulla
questione territoriale di Gerusalemme, sul cambio annunciato di leadership dai
laburisti al falco Sharon.
Il distacco notevolissimo con cui è uscito sconfitto un primo ministro
eletto trionfalmente su Netanyahu appena pochi anni orsono, dimostra come
laburisti e Likud attuino politiche simili se il loro fallimento produce un
cambio di poltrona con vasta maggioranza, dato che sia Barak che i premier
anteriori a lui hanno proseguito e proseguono la politica illegale (condannata
dall'Onu e dalle Convenzioni di Ginevra) di occupazione di territori e,
soprattutto, di spostamento di popolazione per alterare surrettiziamente
equilibri demografici e quindi porre il mondo davanti al fatto compiuto. La
continuità bipartisan della politica governativa israeliana è
quindi al di sopra della distinzione di stile con cui si continua a condurre da
una posizione di forza politica e militare (oltremodo tecnologica ed economica)
nei confronti dei palestinesi e dell'intero mondo arabo, peraltro ansioso di
accantonare con una qualsiasi soluzione Arafat ed i suoi per poter iniziare
finalmente a fare affari con Israele.
Governo di unità nazionale o meno, il destino di Sharon è quindi
analogo a quello dei suoi predecessori: cedere il meno possibile, nella precisa
convinzione che ormai la Palestina sarà uno stato separato con un
proprio territorio (più o meno continuo, per adesso sembra un bantustan)
e con qualche pezzetto di Gerusalemme in una forma di sovranità da
inventare tra le pieghe di una categoria statuale ultra-rigida. Non è
detto che sarà Sharon a fare il compromesso, probabilmente sarà
il prossimo Premier, ma comunque così sarà perché,
nonostante il voto indichi uno spostamento a destra dell'asse di governo, tutti
i sondaggi a medio e lungo periodo indicano chiaramente
l'irreversibilità del processo di pace, anche perché non
c'è alternativa di guerra, vista la debolezza costitutiva degli arabi e
dei palestinesi in particolare.
Il che non vuol affatto dire che la pace è dietro l'angolo. Anzi, a
leggere bene tra le righe dei miei interlocutori, l'affossamento degli accordi
di Oslo è definitivo, e quindi ci attendono ulteriori dieci-vent'anni di
logorio in Medio Oriente, in attesa di nuovi equilibri demografici
(tendenzialmente a vantaggio degli arabi), di nuove risorse energetiche da
accumulare e suddividere (il controllo dell'acqua dell'asse turco-israeliano),
della nuova leadership palestinese del dopo-Arafat (già iniziato,
nonostante il vecchio ras controlli strettamente questa nuova Intifada), del
declino della lobby ebraica sul governo statunitense.
Al presente, però, ciò significa morti, stillicidio permanente,
terrore, e quindi polarizzazioni crescenti nella società israeliana, con
ortodossi e "russi" che travolgono una laicità assicurata dal connubio
sefarditi-askenazi fondanti la nazione ebraica. In realtà, la questione
palestinese sta diventando una questione israeliana. Scontata l'assenza di
tradizione democratica nel mondo arabo, e la corruzione dell'Autorità
palestinese ne è un esempio madornale, è sulla tenuta della
democrazia civica in Israele che si appuntano le maggiori attenzioni per capire
la velocità del processo di pace. L'ortodossia sempre più
incalzante di matrice religiosa arma, in senso letterale e metaforico, le
istanze di colonizzazione dei territori occupati, che prima o poi dovranno pur
essere evacuati come si fece in Sinai all'indomani degli accordi di Camp David
tra Begin e Sadat. Quale forza politica si imporrà sui coloni dopo
averli aizzati e utilizzati come arma di sfondamento?
La società ebraica già conosce una qualche frattura democratica,
nel momento in cui i suoi cittadini di serie B (gli arabi israeliani, appunto),
fedeli elettori dei laburisti, questa volta non si sono recati alle urne (oltre
l'80% di un elettorato che ammonta a oltre il 10% del totale) dopo che il
"loro" governo ne aveva ammazzati 13 nei primi giorni dell'Intifada Al-Aqsa; a
questi si sono aggiunti segmenti consistenti dei movimenti pacifisti che per la
prima volta hanno preso in esame la scelta astensionista come segno di
protesta, insufficiente certo, simbolica ovvio, ma potenzialmente idonea a
rafforzare una dimensione civile non di supporto ad una parte politica
(istituzionale al massimo), ma ora finalmente decisa a prendere nelle proprie
mani parte del destino del processo di pace. I primi segnali sono
incoraggianti: decine di militari si rifiutano da tempo di prestare servizio
militare nei territori occupati, facendo i carnefici dei ragazzi palestinesi
armati di sole pietre e fionde. Riuscirà l'altra Israele a compiere un
passaggio decisivo finora incompiuto, ossia quello di conciliare le visioni
culturali (storiche, più che religiose) tra ebrei e arabi, al fine di
stringere legami di fiducia al di là delle contingenze delle relazioni
politico-diplomatiche? Finora il nesso tra movimenti e partiti istituzionali
bloccava tale opportunità; oggi forse si apre un nuovo spazio di azione,
senza paternalismi e, soprattutto, tutto rivolto in chiave interna alla
società israeliana, e non solo nel senso della pur necessaria
interrelazione tra due popoli contigui.
Questo è il passo più difficile e più lungo, il resto
è risolvibile pazientemente nel tempo: infatti esistono mappe di
divisione di Gerusalemme soddisfacenti per entrambe le parti, esistono forme di
ritorno graduale e/o di compensazione monetaria alla questione dei profughi
storici dei palestinesi in diaspora dopo la Nakba del 1948, mentre il vero nodo
sono i coloni ed il controllo delle risorse, acque e terre fertili
innanzitutto. Ma solo in una cornice di comprensione dei fatti culturali come
precondizione della politica - la narrazione nazionale, più che la
compatibilità tra le due religioni monoteiste: non siamo assolutamente
di fronte a un conflitto religioso - sarà possibile coniugare il
già difficile rapporto tra pace e giustizia dopo oltre cinquant'anni di
conflitti.
Salvo Vaccaro
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