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Da "Umanità Nova" n.07 del 25 febbraio 2001
La nuova legge sui servizi socio-sanitari
Dall'assistenza alla carità
I governi dell'Ulivo, in questi anni, ci hanno abituato a
vedere in opera un lento ma costante lavorio di erosione dei diritti acquisiti
dai lavoratori e dai cittadini più in generale, quindi la Legge
Turco-Veronesi, che disciplina l'assistenza socio-sanitaria, non giunge come un
fulmine a ciel sereno.
L'assistenza socio-sanitaria in Italia venne disciplinata inizialmente dalla
Legge Crispi, nel lontano 1890, individuando nelle prestazioni sociali e in
quelle sanitarie alcuni tra i compiti fondamentali del nascente stato unitario.
Ovviamente, si trattava di una legge improntata al paternalismo e al controllo
sociale degli assistiti, ossia delle fasce proletarie e popolari in genere
della popolazione.
Ciònondimeno questa Legge, e le integrazioni costituite dal regio
decreto 6535 del 1889 e da quelli 773 del 1931 e 383 del 1934, disegnavano
un'impalcatura ampiamente migliore per i lavoratori di quanto non faccia la
Legge 328/2000.
Quest'ultima si presenta con un 'introduzione roboante sui diritti dei
cittadini-utenti e sul diritto di ognuno a ottenere cure e trattamenti
personalizzati (d'altra parte la sindrome Di Bella è solo di tre anni
fa, e qualcosa bisognerà pur concedere alle mode del tempo). Sotto
questa patina, l'intento però si scopre subito, basta analizzare il
linguaggio utilizzato dalla Legge: la parola diritti non compare mai, mentre si
fa un ampio uso della parola priorità. Questa parolina innocente,
nasconde una ben cruda realtà: dal momento che i servizi socio-sanitari
vengono delegati ai comuni, se i servizi non vengono istituiti, non esiste
alcuna disposizione che consenta di ottenerli. L'ipotesi non è puramente
scolastica, se si pensa che il 95% dei comuni italiani ha meno di 20.000
abitanti, non è folle pensare che alcuni comuni possano decidere di non
istituire alcuni servizi con la semplice giustificazione della mancanza di
liquidi in cassa.
In questo modo scopriamo qual è il vero nocciolo dell'intera
Turco-Veronesi: l'assunzione del vincolo di bilancio come regolatore
dell'erogazione (o meno) della prestazione.
Leggendo in modo analitico la legge, infatti, troviamo una serie di punti che
confermano questa affermazione: in primo luogo vengono individuati i diritti
che continuano ad essere considerati comunque esigibili, ossia le pensioni di
invalidità e gli assegni sociali, che vengono garantiti da parte dello
stato.
Per il resto è il trionfo del principio di sussidiarietà tra
stato e enti locali e tra pubblico e privato sociale per quanto riguarda gli
erogatori dei servizi, e delle famose priorità per quanto riguarda
l'accesso ai servizi stessi.
In particolare non viene riconosciuto nessun diritto esigibile ad handicappati,
minori cosiddetti "a rischio", anziani non autosufficienti, lavoratori o
disoccupati con reddito al di sotto del livello di povertà, cittadini
colpiti da malattie invalidanti. Anzi, per quanto riguarda questi ultimi, si ha
il trasferimento delle competenze dalla sanità (tenuta all'assistenza
senza limiti di durata in base alla Legge del 1955) ai servizi
socio-assistenziali, che invece, non sono tenuti all'assistenza se non in grado
di assicurarla.
In generale questa parte della Legge punta a trasferire dalla sanità
tutte le competenze sulle persone inguaribili o affette da pluripatologie. Al
di là di questa fredda e cinica esposizione, il senso di questi
provvedimenti è chiaro: incoraggiamento delle assicurazioni sanitarie
private, risparmio sulle cure e sulle lungodegenze e trasferimento al privato
sociale delle incombenze relative all'utenza "in perdita".
Quest'ultimo passaggio va meglio chiarito: alle organizzazioni del privato
sociale (cooperative, fondazioni, enti religiosi), viene riconosciuto il
diritto di gestire in prima persona i servizi pubblici, non più come
vincitori di una gara di appalto, ma come fornitori, garantiti dalla patente
pubblica, di un servizio completo.
Viene, quindi, recepita legislativamente l'introduzione del meccanismo detto
dell'accreditamento, promosso tra gli altri in questi anni dal Comune di
Torino. Tale meccanismo consiste nella creazione, da parte dell'ente pubblico
tenuto a garantire una determinata prestazione di un registro di fornitori in
grado di sostenere quella stessa prestazione, ai quali indirizzare i
beneficiari del servizio. Rimane del tutto evidente che la conseguenza
dell'introduzione di un simile istituto è l'assoluta perdita di
controllo da parte degli utenti sulla qualità del servizio (teoricamente
la qualità dovrebbe essere garantita dall'ente pubblico certificante, in
realtà il livello di compromissione tra enti pubblici e imprenditoria
sociale destituisce di ogni fondamento questa pretesa teorica), nonché,
per quanto riguarda i lavoratori dell'impresa (sociale, o meno) in accredito,
un peggioramento notevole del grado di controllo del rispetto del Contratto
Nazionale.
In altre parole, si è passati da un meccanismo di appalti dove era
l'ente pubblico a determinare i costi di un servizio, e semmai ad abbatterli
seguendo la logica del massimo ribasso, ad un sistema dove, determinata dallo
stesso ente pubblico la quantità di fondi a disposizione dell'utenza,
sarà affare del fornitore convincere l'utenza stessa della bontà
del suo servizio. Il tutto però in regime di libero mercato, quindi, per
battere la concorrenza si dovranno offrire trattamenti migliori allo stesso
prezzo, e dunque, abbassare i costi reali dei propri servizi. Indovinate chi
resterà con il cerino in mano?
Al discorso relativo al trasferimento ai comuni di gran parte delle competenze
relative al socio-assistenziale (e, quindi, alla loro inesigibilità), e
a quello relativo all'inserimento del privato sociale tra i soggetti titolari
dell'erogazione dei servizi, si devono aggiungere le disposizioni relative ai
ruoli dello stato e delle regioni, ai quali viene assegnato un ruolo di
pianificatori generali della spesa, ma non di erogatori di alcun servizio, e
quelle scandalose relative al ruolo delle IPAB.
Il primo punto conferma l'analisi fatta prima: la fattiva erogazione del
servizio viene "devoluta" al livello più basso dell'amministrazione
pubblica, mentre i livelli più alti si curano di programmare la spesa e
assegnare le risorse, rendendo così l'erogazione dei servizi variabile
dipendente dalla situazione di cassa statale e/o regionale e/o comunale, e
totalmente sganciata dai bisogni sociali reali.
Le disposizioni relative alle IPAB sono, invece, una sfida al normale buon
senso, oltre che la dimostrazione dell'assenza tra gli odierni legislatori di
quel "naturale senso del pudore" che generazioni di preti e censori hanno
cercato di imporci. Queste Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza,
create dalla Legge Crispi nel 1890 per amministrare la carità pubblica,
sono, ormai dalla riforma dell'assistenza del 1978, un carrozzone pubblico a
gestione sostanzialmente privata, esclusivamente occupati dalla cura dei propri
ingenti patrimoni. Ora, la Turco-Veronesi prevede una delega al governo per
riorganizzarli secondo principi di partecipazione alla programmazione regionale
e progressiva trasformazione delle IPAB stesse in associazioni o fondazioni di
diritto privato. In pratica questi enti inutili (o, meglio, utili solo a chi in
questi anni li ha amministrati), vengono rilanciati come parte costituente del
privato sociale.
Lo scandalo maggiore di questa pratica, è racchiuso dentro al fatto che
i patrimoni di questi enti sono stati costituiti con denaro pubblico che, nella
visione paternalistica crispina, doveva andare alle classi popolari bisognose
di assistenza; ora, questo capitale iniziale è quello che ha permesso
alle IPAB di diventare enti nullafacenti ma ricchi grazie ai patrimoni
accumulati in immobili e titoli. Ora questi stessi patrimoni diventano la base
per lanciare una nuova imprenditoria sociale capitanata da questi Robin Hood al
contrario.
Il senso di quest'ultima operazione? Sempre lo stesso: spostare denaro pubblico
verso il finanziamento di forme di imprenditoria che occupino il campo
assistenziale, sollevando i pubblici poteri (e, soprattutto, le loro casse) di
questi compiti, al fine di dirottare la maggior quota possibile di ricchezza
nazionale verso l'accumulazione e il profitto.
Il denaro pubblico speso per assicurare forme di assistenza ai cittadini, si
configura come capitale bruciato per la riproduzione di lavoratori e classi
medie, mentre quello investito nella costruzione di un reticolare mercato del
privato sociale si configura come finanziamento allo sviluppo imprenditoriale
e, quindi, come aumento della quota di ricchezza sociale destinata allo
sviluppo capitalistico.
Il senso profondo delle leggi intervenute dal 1991 a oggi a mutare il panorama
dell'assistenza in Italia è questo. La prima esigenza affrontata dai
governi succedutisi a Roma è stata quella di ridurre i costi
dell'assistenza, per liberare risorse da investire a favore delle imprese;
contestualmente si è favorita la creazione di soggetti economici in
grado di sostituire le amministrazioni pubbliche nell'erogazione dei servizi.
Oggi quest'ultima Legge chiude il cerchio, coniugando il massimo del risparmio
con la massima apertura alle organizzazioni imprenditoriali del privato
sociale.
Gli effetti di questa riorganizzazione complessiva sono già visibili:
limitazione dell'accesso a servizi spesso indispensabili, peggioramento della
qualità dei servizi stessi, erogati ora da personale precarizzato,
malpagato e timoroso per il proprio futuro, aumento della spesa familiare e
individuale per l'ottenimento di prestazioni socio-assistenziali.
Questo è il panorama che ci viene consegnato dal decennio di governi del
centrosinistra su questo terreno. Credo, però, che sia necessaria
un'ulteriore riflessione per evitare sia di appiattirsi completamente sulle
posizioni della sinistra statalista, sia di inseguire progetti anche
validissimi che, a causa della loro attuale fragilità, vengono
recuperati (mutandoli, ovviamente di segno) dagli stessi "smantellatori". Mi
riferisco qui ai progetti di autogestione di spazi della sfera pubblica
relativi al terreno dell'assistenza, o ai gruppi di auto-mutuo aiuto. Queste
iniziative vengono oggi guardate con occhio interessato dal governo e dagli
stessi ministri che hanno steso la nuova legge sull'assistenza, che vedono in
queste la possibilità di ridurre ulteriormente la spesa pubblica.
La triste fine fatta da istituti autogestionari come le banche del tempo in
alcuni comuni della Toscana e dell'Emilia, dove svolgono la funzione di
tappabuchi dell'assistenza pubblica tra il plauso degli amministratori
progressisti, dovrebbe insegnare qualcosa.
Il problema non è (o, perlomeno, non è solo) di volontà
politica dei protagonisti di queste esperienze, ma la questione riguarda tutte
le esperienze di gestione diretta di spazi della sfera pubblica in una fase
dello sviluppo capitalistico non segnata dall'inclusione delle masse negli
istituti di riproduzione statale della società, bensì dalla loro
marginalizzazione. Solo esperienze pervase da una forte tensione etica e
progettuale, nonché consapevoli del fatto che qualsiasi "spazio
liberato" è fortemente sottoposto a un processo di recupero segnato
dalla pervasività delle leggi del mercato, possono contribuire a quella
necessaria ricostruzione di una classe antagonista al modo di produzione
capitalistico.
Giacomo Catrame
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