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Da "Umanità Nova" n.12 del 1 aprile 2001

Dibattito/laquestionesociale
Una questione di chiarezza

Aderisco volentieri all'invito, rivoltomi da alcuni compagni, a intervenire, illustrando le posizioni dell'USI-AIT, nel dibattito promosso dalla commissione denominata "La questione sociale"; dibattito che verte ''sullo stato del movimento operaio e, in particolar modo, sullo stato di quella componente che, negli ultimi anni, ha rappresentato la punta avanzata nei tentativi di autorganizzazione: il sindacalismo di base" (Umanità Nova 5/11/2000).

Non interverrò, ovviamente, su ''come possa efficacemente l'azione anarchica dare battaglia alle derive burocratiche e corporative dei sindacati extraconfederali'' e ''liberare le forze trasformatrici e rivoluzionarie che sono compresse nell'attuale fase della lotta di classe". Per ciò che riguarda la prima parte della domanda, infatti, rispondere non mi compete (almeno come segretario dell'USI); per ciò che riguarda la seconda, personalmente, non credo che il problema sia quello di liberare forze trasformatrici compresse, quanto piuttosto quello di costruirle.

Partirò invece dalle considerazioni esposte da Tiziano Antonelli (Umanità Nova 26/11/2000), per poi tentare di rispondere alle domande poste da Wild CIG (Umanità Nova 19/11/2000) tenendo conto anche di quanto scritto da Guido Giovannetti (Umanità Nova 14/1/2001).

Antonelli, dopo aver ricordato che già Malatesta "aveva avanzato seri dubbi sulla spontanea natura rivoluzionaria del movimento operaio e dei sindacati", afferma che "l'esistenza del movimento dei lavoratori riveste un'importanza strategica per i militanti anarchici" e che non è possibile "parlare oggi di movimento dei lavoratori senza sciogliere il nodo della loro organizzazione permanente, senza che i militanti della FAI si schierino chiaramente e pubblicamente a sostegno dell'organizzazione sindacale dei lavoratori". "Non è possibile" - prosegue - "pensare a un movimento dei lavoratori che non presupponga l'organizzazione sindacale, cioè un'organizzazione che fissi il livello a cui deve essere venduta la forza lavoro e che vigili affinchè questo livello sia rispettato dai capitalisti". E aggiunge: "Questo obiettivo non è raggiungibile da nessun comitato o collettivo spontaneo, sia pure il più rivoluzionario e il più di massa. Questa funzione richiede un'organizzazione permanente e capillare".

Si tratta di affermazioni che, ovviamente, suonano come musica, alle mie orecchie.

Passa poi a parlare delle sezioni sindacali aziendali, che definisce fondamentali, e della loro partecipazione alle RSU, dicendo cose che, per la verità, non mi risultano: "La scelta di partecipare alle elezioni delle RSU" - sostiene - "è maturata nei vari sindacati di base a livello nazionale, se non a livello politico. Gli organismi nazionali non hanno raccolto l'orientamento dei vari organismi di fabbrica e sulla base di queste indicazioni hanno compiuto le loro scelte".

"Al di là della valutazione ideologica, il difetto di questa scelta sta nell'illusione che la partecipazione alle RSU consenta di costruire quel radicamento nelle aziende che la pratica sindacale non ha consentito".

E conclude: "Il radicamento sul posto di lavoro si costruisce solo a partire da una militanza sindacale, solo costruendo delle strutture, le sezioni sindacali appunto, che permettano ai lavoratori di esprimersi e non servano solo a legittimare il militante più attivo. In questo quadro, anche la partecipazione alle elezioni delle RSU assume un altro significato: i lavoratori eletti saranno rappresentanti di una struttura esistente e il centro decisionale rimarrà sempre nella sezione sindacale e non nell'organismo delegato".

Non mi risulta, lo ripeto, che la scelta di partecipare alle elezioni delle RSU, operata da tutti i sindacati non concertativi (tranne l'USI-AIT) sia maturata contro la volontà delle sezioni aziendali. Al contrario, in genere, sono state proprio queste le prime a muoversi su tale terreno. E anche nell'USI-AIT, che si è dichiarata contraria alla partecipazione (ferma restando l'autonomia delle sezioni), chi si è pronunciato contro la partecipazione sono stati soprattutto gli aderenti a quelle federazioni che, all'intervento aziendale, preferiscono l'intervento sindacale sul territorio.

Credo che nessuno s'illuda che la partecipazione alle RSU consenta di costruire quel radicamento nelle aziende che la pratica sindacale non ha consentito: essa risponde in genere, più banalmente, all'esigenza di poter utilizzare, senza doverli conquistare ogni volta, importanti strumenti quali i permessi sindacali e le assemblee in orario di lavoro.

Allo stato attuale non esiste, infine, per quel che posso vedere, il problema che gli eletti nelle RSU sfuggano al controllo delle sezioni aziendali: dove sono state presentate liste antagoniste, gli eletti sono stati in genere numerosi, e gli elementi attivi delle sezioni aziendali si sono trovati, di fatto, a coincidere con gli eletti. I problemi connessi alla partecipazione alle RSU, sono purtroppo, come vedremo, di altro tipo.

Li mette subito in evidenza Wild CIG, che sottolinea "la difficoltà di trovare compagni e lavoratori che si candidino nelle liste degli autorganizzati" e che si domanda se la rincorsa alle RSU sia "veramente utile per la costruzione di un movimento radicale del conflitto di classe" o non sia altro che "adeguarsi al poco o nulla che avanza, con il rischio di rimanere ingabbiati in meccanismi già stabiliti, decisi a priori da CGIL, CISL, UIL e governo".

Circa la difficoltà di trovare compagni che si candidino nelle liste degli autorganizzati gli risponde Guido Giovannetti fornendo "due spiegazioni possibili:

la pura e semplice mancanza di interesse per l'intervento sindacale;

il timore di essere coinvolti eccessivamente da un intervento di questo tipo perché lo si ritiene meno interessante rispetto ad altre modalità di azione di tipo politico o culturale".

Ne aggiungerei almeno una terza: il timore, più che giustificato, di perdere tempo inutilmente e di staccarsi sempre più dai lavoratori. E' certo, infatti, che la partecipazione alle RSU, con i loro riti e le loro vischiosità, fanno perdere tempo prezioso per l'attività sindacale e che gli eletti, per quanto restino, a tutti gli effetti, lavoratori fra lavoratori, cominciano a essere visti da essi come qualcosa di diverso, a volte quasi come una controparte.

Non a caso, io credo, Wild CIG si domanda se la rincorsa alle RSU sia "veramente utile per la costruzione di un movimento radicale del conflitto di classe".

"Che le RSU siano state progettate come una gabbia volta a riservare ai delegati di azienda un ruolo marginale a fronte dei sindacati esterni" - risponde Giovannetti - "è assolutamente evidente. La scommessa di chi ha scelto, comunque, di partecipare, è quella di garantire al sindacalismo di base alcune libertà sindacali minime, di lavorare al coordinamento dei delegati, di puntare sulla contraddizione fra delegati e apparati. Si tratta, appunto, di una scommessa; il rischio di volare bassi e di ridursi, di conseguenza, a raccogliere le briciole che cadono dal tavolo della contrattazione è reale. Il problema che, però, affrontiamo è, a mio avviso, se si debba assumere come rilevante il terreno sindacale e se lo si debba fare attraverso la costruzione di sindacati di base".

Come compagni dell'USI-AIT, non condividiamo questo modo di vedere le cose: affermare che il terreno sindacale sia rilevante e che debba essere occupato attraverso la costruzione di sindacati di base è una cosa (per noi, ovvia), affermare che ciò comporti necessariamente la partecipazione alle RSU è tutt'altra cosa. Alcune nostre sezioni aziendali partecipano alle RSU, altre hanno scelto di non partecipare. Alcune sono più efficienti di altre, a prescindere dal fatto che partecipino o meno alle RSU. Ogni situazione rappresenta una storia a sè, ed è molto difficile trovare ricette adatte a tutte le situazioni: al nord come al sud, al pubblico come al privato, ad aree tradizionalmente sindacalizzate come ad aree del tutto prive di tale tradizione.

Quelle sezioni aziendali dell'USI-AIT che hanno "scelto, comunque, di partecipare" non lo hanno fatto, comunque, nell'ottica "di lavorare al coordinamento dei delegati" e "puntare sulla contraddizione fra delegati e apparati". Questo lavoro, tipico della sinistra CGIL degli anni '70, non ci interessa più da un pezzo. E poco ci interessano i cento "coordinamenti delle RSU", che altro non sono se non mascheramenti dietro ai quali ritroviamo le solite vecchie correnti sindacali. Dentro o fuori dalle RSU, abbiamo fatto, da un pezzo, la scelta di presentarci ai lavoratori con il nostro nome.

Qualcuno forse ci accuserà di "eccessiva identificazione con il sindacato di appartenenza", di "un'identificazione che ci porta a non guardare con equilibrio alla questione sociale e a sottovalutare il fatto che solo una ripresa del movimento di classe può permettere allo stesso sindacalismo di orientamento libertario di fare un salto significativo". Per noi è soltanto una questione di chiarezza. Del resto, il fatto di farsi conoscere con il proprio nome non significa pretendere di decidere, nel corso delle vertenze, al posto dei lavoratori in lotta.

Luciano Nicolini



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