Da "Umanità Nova" n.13 dell'8 aprile 2001
Dibattito
Scienza e anarchia
In generale, le rivolte mi suscitano un istintivo sentimento di simpatia. Ma
quando a rivoltarsi sono una categoria di "lavoratori" privilegiata e
sopravvalutata come quei membri della cosiddetta comunità scientifica
che hanno firmato l'Appello per la libertà di ricerca, il sentimento
evocato è un senso di squallore. Tanto che i fatti non meriterebbero
ulteriori commenti se non fosse per un'equazione che è stata più
volte usata nel corso del dibattito, e che può essere riassunta nel:
"chi è contrario alla ricerca biotecnologica è necessariamente
contrario alla scienza e alla libertà di pensiero".
Più voci, alcune ingentilite da un premio Nobel, sono arrivate a
scomodare Galileo e l'Inquisizione, accomunando l'opposizione "ecologista"
all'oscurantismo clericale. Tutto ciò merita una replica.
Il fatto è che la rivendicazione di "libertà di ricerca" del
manifesto degli "scienziati" non solo è un vergognoso esercizio di
ipocrisia ma è anche un falso concettuale. La libertà della
sperimentazione e della scienza è un diritto talmente ovvio e basilare
che non solo sta fra i capisaldi del pensiero anarchico ma viene considerato
tale anche da diverse costituzioni statali. Si tratta comunque di un "diritto
naturale" di tutti gli essere umani e non di una minoranza privilegiata. Da un
lato però se un comune cittadino volesse esercitare tale diritto
autonomamente, si troverebbe presto impastoiato "di fatto" da difficoltà
burocratiche insormontabili. Dall'altro, chi ha fatto di tale diritto un
mestiere, è nella maggioranza dei casi, pena la marginalizzazione,
costretto a dirigere la sua attenzione su ricerche gradite e finanziabili. Si
tratta di quella "professionalizzazione" del mondo scientifico che nessuno
nega, tantomeno gli scienziati, ma di cui tutti fingono di ignorare le
conseguenze. Complessivamente, la ricerca scientifica è nei fatti da
quasi un secolo tutt'altro che libera.
Fin qui l'ipocrisia del "manifesto". Ma c'è anche il falso.
Siamo proprio sicuri, come gli "scienziati" danno per scontato, che il
principio della libertà della scienza sia applicabile anche
all'ingegneria genetica? Tale principio vale infatti per la scienza, non per la
ricerca di laboratorio in sé. Non tutta la ricerca merita l'attributo di
"scientifica", e non tutti i ricercatori possono legittimamente definirsi
"scienziati". In realtà, le ricerche biotecnologiche, come la maggior
parte delle ricerche industriali, appartengono al campo della tecnica, non a
quello scientifico. Contestarle quindi non mette in questione nessun sacro
principio.
Naturalmente questa asserzione potrebbe essere negata richiamandosi a
quell'ideale scientifico che da Bacone e Cartesio in poi ha caratterizzato la
modernità, per il quale il fine della scienza è un sapere
utilizzabile dalla tecnica. Si tratta della base ideologica dell'attuale
scientismo che fa del "progresso" un valore a sé stante, a prescindere
se questo sia un bene o sia un male, o meglio, presupponendo dogmaticamente che
non può che essere un bene. Peccato che tale concezione della scienza
sia stata superata e considerata fallimentare da almeno cinquant'anni e che
resti ancora artificiosamente in piedi solo per difendere impropriamente
interessi corporativi e finanziari. Nessuno mette più oggi in questione
che l'ideale scientifico è un prodotto storico e che non risponde ad
esigenze "oggettive". Non è infatti la Metodologia che può
fornire dei criteri di distinzione del sapere scientifico da altre forme di
sapere quali ad esempio i saperi tecnici. A determinare l'attività
scientifica in quanto tale è quindi l'indicazione delle sue
finalità. Ora le finalità e i valori sociali su cui attualmente
la scienza è definita in quanto tale restano quelli di un sapere
"aperto" in cui la libertà ha come contrappeso la gratuità e
l'accessibilità pubblica. È una citazione da manuale l'elenco
delle caratteristiche di tale ideale scientifico, ma forse vale la pena di
rinfrescare la memoria a qualche premio Nobel: Ricerca disinteressata della
verità, pubblicità dei risultati e dei procedimenti usati, pari
dignità fra i ricercatori, scetticismo sistematico dei risultati
ottenuti. Insomma la scienza è per definizione "anarchica". L'attuale
crisi della scienza è un sintomo vistoso della situazione di
illibertà, anzi di totalitarismo dell'attuale sistema globalizzato.
Non così la tecnica. La tecnica è un sapere chiuso, limitato da
brevetti, diritti d'autore, interessi produttivi. Ne usufruisce solo chi se lo
può permettere. La situazione della maggior parte del pianeta ne
è la prova.
I ricercatori che sono "scesi in piazza" hanno difeso questo tipo di sapere,
non certo il sapere scientifico.
Un'ultima notazione. Politici e tecnocrati hanno cercato un accordo intorno ad
un inedito "principio di precauzione". Accettare un "principio di precauzione"
serve solo a togliere libertà alla scienza piuttosto di mettere in
questione la scientificità della tecnica.
Invito i millecinquecento firmatari del manifesto per la libertà di
ricerca a far proprio invece il "principio di responsabilità",
assumendosi da "liberi scienziati" la loro parte di oneri morali ed economici
per i danni all'Umanità provocati dalle loro ricerche tecniche. Nel
frattempo gli statalisti "in buona fede" potrebbero già cominciare a
mettere a punto un "Tribunale internazionale per crimini contro
l'umanità" che giudichi tali ricercatori. Potremmo averne bisogno fin
troppo presto.
Geronimo Cornelius
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