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Da "Umanità Nova" n.15 del 29 aprile 2001
Piccoli schiavi
La ferocia del capitale
Con la violenza dello schiaffo dato a una persona
addormentata, è stata sbattuta improvvisamente in prima pagina, in
questi giorni, l'atroce questione del lavoro minorile, sbarcata sui media in
occasione dell'avvistamento, al largo delle coste del Benin, della cosiddetta
nave degli schiavi bambini. Una nave negriera nella quale avrebbero dovuto
trovarsi parecchie centinaia di fanciulli dai 5 ai 15 anni "venduti" dai
genitori ai mercanti di carne umana e destinati alle piantagioni e ai campi di
lavoro di alcuni paesi del Centro Africa. Che quella attraccata nel porto di
Cotonou si sia rivelata poi non una nave carica di piccoli schiavi ma una
carretta del mare piena di un'umanità altrettanto dolente ma formalmente
"libera", non toglie nulla alla drammaticità di una tragedia, quella
dello schiavismo, che ancora infesta le terre più depresse del sud del
mondo: terre stritolate da un'endemica povertà, aggravata dalle
politiche economiche di quel capitalismo multinazionale che periodicamente si
riunisce nelle capitali del primo mondo per affinare le proprie strategie di
sfruttamento e rapina.
Ecco dunque che i media, non potendo bucare una notizia così
"esoticamente" ghiotta, si sono occupati del fatto che in numerosi paesi
africani e asiatici la schiavitù è ancora ampiamente tollerata e
praticata, e che è possibile per un "datore di lavoro" acquistare il
corpo e la vita di un essere umano al fine di sfruttarne legittimamente le
potenzialità lavorative e produttive (ed è meglio non indagare su
quali possano essere le cosiddette prestazioni d'opera!). E dunque, intere
pagine, articoli e servizi trasudanti un incredulo stupore di fronte alla
scandalosa realtà che nel terzo millennio esiste ancora quella stessa
piaga che due secoli orsono, muovendo dalle stesse terre e dalle stesse coste,
fece sì che un giovane continente, bianco, anglosassone e protestante,
creasse le basi per la costruzione della propria smisurata ed esclusiva
ricchezza.
A ben guardare, però, il caso della nave negriera del Benin, al di
là di un facile sentimentalismo di facciata, è opportunamente
diventato l'occasione per smacchiare le coscienze dei corifei pronti a
denunciare lo schiavismo del terzo millennio (del resto, come non manifestare
di fronte ad esso un moto di ripulsa e vergogna?), ma cronicamente silenti su
una realtà altrettanto se non più dolorosa. Infatti il problema
della schiavitù minorile, pur nella sua tragicità, è solo
un aspetto, e forse neanche il più atroce, di un cancro che macera
inesorabilmente le migliori energie di tanti paesi poveri; accanto ad esso
convive un altro fenomeno, quantitativamente ben più rilevante,
costituito dallo sfruttamento intensivo e generalizzato del lavoro minorile, di
bambini e adolescenti del "sud" del mondo, costretti a distruggere le proprie
vite, tanto redditizie per gli altri quanto prive di valore per se stessi, per
contribuire alla accumulazione di ricchezza del ricco occidente. E questo "sud"
del mondo non si trova poi così distante da casa nostra!
A leggere certe cifre si rimane interdetti. Sono quelle che riguardano
l'entità dello sfruttamento del lavoro minorile nel mondo. E non solo
nel terzo mondo, nel mondo "sottosviluppato", ma anche in quello opulento e
civile dove i diritti del lavoro dovrebbero essere garantiti sotto tutti i
punti di vista. I minori costretti a lavorare, infatti, secondo i dati
più recenti dell'Unesco, sono circa 250 milioni, una cifra
impressionante se si pensa che per minori si intendono i bambini dai 5 ai 14
anni, che queste statistiche sono sempre sottostimate e che solo cinque o sei
anni orsono si parlava di non più di 150 milioni. Il 40% dei minori
africani, il 20% dei minori asiatici e latino americani, e l'Unesco tace
pietosamente sulle percentuali della ricca Europa o del Nord America. E a
fianco di questi piccoli schiavi costretti a vendere la propria forza lavoro
per un tozzo di pane (e non è un'espressione metaforica) si schiera
l'immenso esercito dei bimbi di strada, delle piccole prostitute e dei
giovanissimi criminali, delle vittime altrettanto disgraziate la cui unica
possibilità di sopravvivenza è data dall'affannoso arrangiarsi
nelle montagne di spazzatura delle megalopoli di tutto il mondo.
Un'infanzia violata, dunque, continuamente costretta a subire le angherie delle
leggi del profitto e destinata a riprodurre le condizioni sociali perché
le generazioni successive siano costrette a percorrere lo stesso calvario di
fame e disperazione.
Le cause di questo degrado, naturalmente, sono molteplici. Alcune,
tradizionali, vengono da lontano e si inseriscono in abitudini consolidatesi in
secoli di miseria, altre, le più importanti, sembrano pensate a tavolino
in qualche consesso del WTO o del G8. Da una parte la necessità delle
famiglie, soprattutto contadine, di garantirsi manodopera a costo zero, o i
bisogni di piccole attività artigianali impossibilitate a comportamenti
diversi pena la propria scomparsa; dall'altra l'emergere di industrie nazionali
autoctone che, in mancanza di grandi capitali ma agevolate da complici
politiche governative, creano profitto grazie a orari impossibili e salari da
fame. Più di tutto, però, la politica di rapina delle
multinazionali che, imponendosi con la tracotanza del dollaro, sfruttano il
lavoro minorile in maniera scientifica e razionale, creando un plus valore
enormemente superiore a quello prodotto dalle miserevoli economie di
sopravvivenza di cui sopra. E se da noi qualcuno protesta o tenta campagne di
boicottaggio, ecco una borsa di studio, un premio in denaro, un convegno sulla
fame nel mondo, una campagna umanitaria che faccia leva sui sentimenti della
brava gente... e non ci si pensi più. E poiché piove sempre sul
bagnato, a questa situazione drammatica si è aggiunto il degrado
economico e sociale che ha colpito il mondo ex comunista, dove altri milioni di
bambini, privati di ogni forma di assistenza sociale, sono costretti a cedere
le proprie esistenze ai pescecani locali e internazionali. Penso che ne
sappiano qualcosa i nostri industrialotti del nord est, che finalmente hanno
trovato il paese di Bengodi dove si lavora sodo, non ci sono i sindacati
rompicoglioni, si riesce a scopare con due lire e in più si fanno tanti
begli schei.
Esattamente 6 anni orsono, il giorno di pasqua del 1995, veniva ucciso a
Lahore, nel Pakistan, Iqbal Masih, il compagno Iqbal Masih. Aveva dodici anni e
dall'età di quattro tutti i giorni passava dodici ore legato al telaio
di una fabbrica di tappeti. Il padre era stato costretto a "venderlo", a farne
un giovane schiavo dunque, poiché non era stato in grado di ripagare un
piccolo debito contratto con uno strozzino locale. Come Iqbal milioni di altri
bambini in Pakistan sono incatenati, ancora oggi, ai propri posti di lavoro,
rassegnati a una vita senza prospettive. Ma Iqbal non era rassegnato e ha
lottato con la forza della disperazione e la consapevolezza della propria
dignità contro l'infamia a cui lui e milioni di suoi coetanei erano
soggetti. La sua storia ha fatto il giro del mondo, privati e organizzazioni
internazionali ne hanno fatto un simbolo, ma questo non gli ha impedito di
essere ucciso in una strada di Lahore. È al piccolo, grande compagno
Iqbal che dedichiamo il nostro primo maggio, "al piccolo Iqbal Masih che ha
sacrificato la vita per la libertà di tutti i bambini schiavi del
mondo", al piccolo grande Malatesta pakistano che è morto perché
"convinto che gli unici arnesi da lavoro che i bambini dovrebbero tenere in
mano, sono penne e matite".
Massimo Ortalli
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