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Da "Umanità Nova" n.15 del 29 aprile 2001
Petrolchimico di Marghera
Il nodo di Gordia
Il grande business della riconversione
Sull'acropoli di Gordion, antica città dell'Asia Minore, si elevava il
tempio di Zeus dov'era il carro reale che aveva il timone congiunto al giogo
con un nodo inestricabile. Nessuno, ad eccezione di Alessandro Magno che
semplicemente lo tagliò, era mai stato capace di scioglierlo. Anche la
storia del Petrolchimico di Porto Marghera è fatta di molti nodi e
altrettante corde. Difficile allentarli e liberare il timone dal giogo, senza
affrontare alcune scomode verità che finiscono spesso per scomparire nel
desolato panorama di degrado della zona industriale.
Ma la memoria soccorre la storia più spesso di quanto non si vorrebbe,
nonostante si tratti di ricordi relativamente vicini, così vicini da
poter spesso essere trascurati. Il lungo processo celebrato ai danni di buona
parte della dirigenza Enichem può essere considerato il punto d'arrivo e
di partenza, allo stesso tempo, di una delle tante vicende della chimica
italiana. Perché è lì che finiscono lunghi anni di attesa
per un risarcimento prima di tutto morale più che economico e
perché è da lì che ricomincia il faticoso viatico della
verità, ammesso che ce ne sia una sola.
Il crogiolo delle colpevoli omissioni e di molte taciute speculazioni viene in
evidenza con il disseppellimento di alcune discariche interne allo
stabilimento. I rifiuti tossici che anno dopo anno sono stati accumulati
raccontano di un modo di fare denaro che poteva - e che certo può ancora
- non tener conto di alcuna regola, se mai regole sono esistite in un certo
modello di produzione che abbiamo chiamato capitalismo. C'erano all'epoca,
confermano i testimoni oculari, almeno due sistemi sicuri per trasformare i
rifiuti in affare lucroso: interrarli, perché anche questo significava
dover impiegare uomini e mezzi, fornendo all'azienda un servizio ben
retribuito; oppure esportarli direttamente all'estero. Si fatica a ricordare la
Jolly Rosso, nave dei veleni che scaricava centinaia di tonnellate sulle coste
africane o la società PEI (Piattaforma ecologica industriale) indagata
per il coinvolgimento nel trasporto dei rifiuti tossici in Libano. Meglio
dimenticare per sottrarre al presente alcune significative riflessioni sul
passato. Meglio rifilare all'opinione pubblica la vecchia cantilena
dell'opposizione tra industrialisti ed ecologisti, chiamiamoli così, per
ridurre il quadro generale della situazione ad una sorta di atavico scontro tra
le ragioni del lavoro e della plastica (giacché di plastica si vive, ci
ammonisce la società dei consumi), da un lato e quelle della natura
incontaminata e del mare pulito, dall'altro. La realtà travalica ogni
speranza di possibile semplificazione, purtroppo. Gli unici elementi
inequivocabilmente semplici rimangono le soluzioni che aziende del calibro di
Enichem riescono ad escogitare per proseguire indisturbate nell'accumulazione
di profitto.
Si è fatto un gran baccano a seguito degli incidenti al Petrolchimico,
uno dei quali ha portato all'espulsione in atmosfera di quasi una tonnellata di
CVM (Cloruro di Vinile Monomero), lo stesso composto chimico che ha provocato
negli operai dello stabilimento addetti alla lavorazione il carcinoma epatico.
A sentire la stampa locale, che ha immediatamente evocato gli spettri del
disastro ambientale, una quantità di tale rilievo poteva significare
soltanto la chiusura degli impianti, vicini come eravamo alla contaminazione
totale dei centri urbani prospicienti la zona industriale di Marghera. In
realtà nessuno è in grado di stabilire quanto CVM nel corso degli
ultimi quarant'anni sia entrato nei nostri respiri e sospiri quotidiani e
nessuno può stabilire cosa fare della chimica all'infuori delle stesse
aziende coinvolte nei processi di lavorazione delle materie tossiche. Del
resto, l'atteggiamento di Enichem è perfettamente coerente dal punto di
vista degli investimenti e dunque, ancora una volta, della logica del guadagno.
Se si chiude, si chiude per non procedere a costosi interventi in materia di
sicurezza; e la sicurezza a Porto Marghera, come sanno perfettamente le legioni
di esperti che si affannano a dire la loro da una parte e dall'altra, significa
soltanto rifacimento completo degli impianti. Vecchi, obsoleti, operativi da
troppo tempo per non pensare che costa meno sostituirli che provvedere alla
loro manutenzione.
Attualmente una buona metà dell'originario stabilimento è
già chiuso. Restano ancora in attività l'impianto CVM, il PR15
per la produzione di caprolattame, una plastica utilizzata per esempio nelle
imbottiture dei divani e delle poltrone, l'impianto Cloro-soda, il TDI, l'EVC,
all'interno del quale si è verificato l'ultimo incidente del giugno
scorso, il CR, cosiddetto cracking per l'estrazione di etilene, propilene e
prodotti di base. Quest'area rappresenta il nuovo Petrolchimico distinto dal
Petrolchimico 1, la vecchia zona che risale ai primi anni cinquanta e sulla
quale si sta ancora decidendo il da farsi.
Se arrivate da Venezia, lungo la striscia di asfalto che vi conduce oltre
l'abitato di Marghera, troverete sulla vostra sinistra parte dello stabilimento
che si affaccia sulla statale. Nella variante del piano regolatore è
ancora zona industriale nonostante il raddoppio previsto della carreggiata
costituisca già l'inizio di parte della futura espropriazione del
terreno. Si tratta di una delle aree dalle quali cominciare il vero e proprio
business. Attraverso progressive bonifiche e smantellamento degli impianti
chiusi. Se ne sta occupando un consorzio - nascono come i funghi negli ultimi
tempi cooperative e consorzi, non appena l'odore dei soldi riesce a superare
quello dei camini industriali - costituito da ex sindacalisti e uomini di
partito ben introdotti. È cominciato il grande affare delle
riconversioni. È prevedibile che Porto Marghera venga lentamente
bonificato tutto, ma come è noto i tempi della politica e dell'economia
hanno bisogno di una verifica strategica che va oltre le nostre limitate
possibilità di comprensione.
L'intreccio degli affari, laggiù, è davvero complesso e coinvolge
più di una classe politica e certo più di una generazione di
dirigenti. È interessante notare che negli ultimi anni alcune
significative migrazioni da una società all'altra, da un consorzio
all'altro, da un'azienda all'altra disegnano la geografia di un territorio
saldamente occupato da lobby di potere poco inclini a raccontare di se stesse,
come è naturale che sia, e ben disposte a lasciar fare a Greenpeace che
prende d'assalto il Leviatano mentre operai della Fulc, il sindacato di
fabbrica, si sono adoperati nei confronti dei contestatori per uno scambio di
idee a suon di ceffoni.
Si preparano cordate di società per realizzare le sole bonifiche. L'ex
sindaco Cacciari, con una certa rapidità, ha proposto un paio d'anni fa
addirittura la costituzione di un authority che sorvegli e governi l'intricata
questione. Ma altre e più solide ragioni animano Enichem.
Paradossalmente è proprio l'azienda che ha in proprietà il
Petrolchimico ad avere maggior interesse nelle opere di bonifica. Frusciano le
banconote ed è come il canto delle sirene: naufragare è dolce in
quel mare. Per questo è possibile che AMAV, Azienda multiservizi
ambientali del Veneto, che qui da noi si occupa tra le altre cose di nettezza
urbana, accolga volentieri nel suo organico alcuni dirigenti del Petrolchimico.
Per esempio l'ex capo laboratorio dei controlli di sicurezza; per esempio l'ex
responsabile per la sicurezza ambientale; per esempio l'ex responsabile
dell'impianto di depurazione. Non basta. Bisognerà in aggiunta
costituire piccole aziende affiliate per lo smaltimento degli impianti e i
lavori di bonifica, oppure per lo scavo dei canali industriali.
Un tempo l'Europa colonizzò le terre oltre il mare e oltre l'oceano. Il
concetto è rimasto radicato nella mentalità dei padroni del
vapore. Per questo Enichem, emanazione diretta di ENI, Ente nazionale
idrocarburi con il 51% di azioni di proprietà del Ministero del Tesoro e
quindi azienda di Stato a tutti gli effetti, accetta volentieri di colonizzare
le strutture che sul territorio non faranno altro che portare a termine un
progetto di controllo, credete, estraneo a qualsiasi politica che non sia
quella del profitto. Qualche numero della ghiotta torta da spartire, a
completamento del quadro: 800 miliardi dal Ministero dell'Ambiente per
bonificare aree non private - i canali industriali per dirne una; 200 miliardi
di finanziamenti privati - da ENI per dirne un'altra - a favore delle aree
interne. Ce n'è abbastanza per fare una guerra, verrebbe da dire.
Guerra contro i poveri, nel frattempo. Vale a dire i lavoratori, spesso
trascinati sulle pagine dei giornali come bandierine da sventolare ora in una
contrattazione sindacale, ora in una manifestazione anti-ambientalista. Ed
è il lavoro l'ultimo, e più importante, nodo gordiano che non
scioglieremo mai, proprio perché il timone, ritornando per un attimo al
mito greco, è saldamente legato al giogo. Il lavoro che diventa
precario, nonostante le promesse di riconversione; il lavoro che deve diventare
flessibile, minimo comun denominatore per aver garantito non tanto un salario
minimo quanto la stessa occupazione. Di questo si sta parlando nella terra
felice dell'Euro che abbraccia ormai il Vecchio Continente. In questo senso
Marghera costituisce un buon esperimento. È abbastanza semplice,
infatti, sollevare molti fumi intorno alle decine di nuovi posti di lavoro che
verrebbero garantiti dalla riconversione delle aree industriali, magnifiche
sorti e progressive di un'era che il nuovo millennio inaugurerà. Della
qualità di questo lavoro non una parola. Dei contratti di formazione per
mezzo dei quali ciascuno non sarà mai più ancorato ad alcuna
certezza se non quella della migrazione continua da un posto all'altro, se
posto ci sarà, meglio non dire niente. Meglio non dire niente che possa
turbare il sonno degli elettori.
Mi ha fatto osservare qualcuno che per portare a termine le bonifiche non
è nemmeno necessario chiudere il Petrolchimico, ma che anzi la chimica
potrà meglio lucrare anche in quel settore, e gli sforzi di Enichem per
aumentare la sua influenza nel territorio sembrano dimostrarlo. Certe volte la
soluzione è semplice ed è sotto gli occhi di tutti. Per questo
dimenticarsi di guardare, talvolta, può trasformarsi in un gesto di
complicità. Basterà, forse, farsi un nodo al fazzoletto.
Mario Coglitore
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