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Da "Umanità Nova" n.15 del 29 aprile 2001
Dibattito/botta e risposta
In merito alle campagne di boicottaggio
Un capitalismo dal volto umano, credo sia la
rappresentazione del sistema economico che attualmente viene "assimilata" dalla
maggioranza degli individui coinvolti direttamente o indirettamente nel
processo produttivo. Non sarebbe altrimenti spiegabile un tale livello
d'integrazione con questo modello economico anche da parte di chi, almeno in
teoria, dovrebbe combatterlo.
Sicuramente il capitalista non viene più identificato con la caricatura
del grasso padrone con l'espressione arcigna, cilindro sulla testa e sigaro in
bocca, da qualche parte viene addirittura rappresentato come sempre sorridente,
un po' pelato, piuttosto nano, con lo spirito dell'imprenditore ma con il cuore
di un operaio. Contemporaneamente, per la crescente importanza assunta dalle
multinazionali, il capitalismo ha un volto sempre più sfumato
difficilmente identificabile con quello di singoli individui, pur risultando
sempre più umano nel senso che viene propagandato come l'unico sistema
adatto a regolare i rapporti economici tra i discendenti dell'homo sapiens.
Affermato il primato dell'economia, diventa "naturale" la necessità di
adeguare di conseguenza la sfera sociale e politica fino ad uniformare stili e
ritmi di vita.
Partendo da queste considerazioni e stimolato dalla lettura dell'articolo "No
all'uomo Del Monte" U.N. ndeg. 10 mi pongo alcune domande.
Come ci confrontiamo con chi è convinto di quanto ho scritto sopra? Come
traduciamo la critica ai massimi sistemi in una serie di proposte, forse di per
sé non rivoluzionarie, ma praticabili nell'immediato anche da chi
è ancora troppo lontano dalle nostre convinzioni? Come evitare che i
tentativi d'opposizione ai modelli dominanti e i percorsi di trasformazione
radicale della società possano essere riassorbiti da una prospettiva
riformista?
Certamente non possiamo attendere la rivoluzione che verrà, augurandoci
che nel frattempo gli sfruttati non organizzati sindacalmente, schiacciati
dalla condizione di chi sopravvive si rivoltino contro il "loro padrone" e si
rifiutino, ad esempio, di produrre ananas per gli sfruttati che se le possono
comprare al supermercato.
Credo che davanti ad un'etichetta che per assurdo dichiarasse, oltre ad
ingredienti e luogo di produzione, anche che il prezzo vantaggioso della
scatoletta di ananas è legato al fatto che chi lavora nei campi non
dispone di acqua potabile, viene retribuito con un salario da fame e dorme in
una baracca di lamiere, tanti, di coloro che hanno superato la soglia
dell'indigenza, avrebbero almeno un sussulto riflettendo sul proprio ruolo di
consumatori.
Poi le reazioni potrebbero essere le più varie: si può far finta
di non aver letto bene, si può eliminare l'ananas dalla propria dieta,
si possono comprare quelle della concorrenza, quelle del commercio
equo-solidale, o anche perché no, si può promuovere una campagna
di boicottaggio pubblica.
Sia chiaro, nessuna di queste scelte porta direttamente alla rivoluzione, ma
facciamo attenzione a non considerarle come azioni equivalenti o ininfluenti
rispetto ad una, seppur distante, prospettiva di cambiamento.
È vero: "Sono tali e tante le cose da colpire da poter rendere paranoico
qualsiasi boicottatore", per questo bisogna utilizzare gli strumenti, come
quello del boicottaggio, per degli scopi potenzialmente raggiungibili nella
situazione in cui ci si trova; colpire l'immagine asettica di una
multinazionale, sostenere un attività di controinformazione, sviluppare
la consapevolezza del proprio ruolo di consumatore, stabilire dei legami di
solidarietà con dei lavoratori con cui difficilmente si entrerebbe in
contatto direttamente, ipotizzare percorsi di trasformazione dell'esistente,
costruire alternative concrete al modello economico dominante, sono tutti
passaggi parziali, ma non credo, ritenendomi un anarchico "onesto" ma pieno di
contraddizioni, ad una rivoluzione di pochi e nemmeno ad una rivoluzione lunga
un giorno.
Non dispongo di dati verificabili per sostenere quali delle campagne di
boicottaggio che si sono susseguite negli ultimi anni hanno raggiunto gli
obbiettivi per cui sono nate ma, ritengo che porre degli obiettivi chiari ed
espliciti e chiudere una campagna quando questi sono stati raggiunti, sia una
necessità strategica.
Posto che dal nostro punto di vista non esiste un livello di sfruttamento
accettabile, che mezzi e fini non possono essere in contraddizione, dobbiamo
pensare ad ogni conclusione positiva di un'azione, che sia una manifestazione,
uno sciopero, un'occupazione, un boicottaggio, come base da cui rilanciare
altre iniziative in grado di modificare ulteriormente i rapporti di forza. Per
questo, a mio parere, non dovremmo lasciare il boicottaggio, come altri
strumenti di lotta, esclusivamente nelle mani di soggetti politici che
risultano funzionali alle semplici operazioni di maquillage realizzate dalle
imprese capitaliste che tentano di nascondere il loro vero volto, che di umano
non ha nulla.
Marco Tafel
Caro Marco,
le tue osservazioni mi paiono fondate e capaci di centrare nel merito alcune
questioni fondamentali. Vorrei però 'rassicurarti' sul senso del mio
articolo. Il senso del boicottaggio, come avevo scritto, posa su due assunti,
almeno per me:
Sensibilizzare su uno o più problemi politici.
Fare pressione diretta ed indiretta su coloro che si intende colpire.
Ciò che contestavo alla campagna anti-Del Monte è il fatto di
essersi autosospesa in virtù di alcuni miglioramenti parziali,
garantendo così all'azienda di Cragnotti di rifarsi la facciata. Se il
boicottaggio venisse utilizzato oltre che per ottenere sacrosanti
miglioramenti, anche per garantire la rispettabilità di multinazionali
dedite allo sfruttamento, avrebbe la stessa funzione, utopica e mistificatoria,
di coloro che chiedono la democratizzazione (?) di organismi internazionali
quali FMI, Banca Mondiale... o di coloro che credono che la natura del
capitalismo possa ricondursi ad un mercato dal volto umano, quando i
presupposti che ne garantiscono la sopravvivenza oltre che l'espansione sono
legati ad un unico criterio: il profitto. Da cui ne discende tutto ciò
che segue: abbassamento dei costi del lavoro sino ad arrivare a nuove forme di
schiavitù, sfruttamento delle risorse ambientali, guerre più o
meno umanitarie...
Il mio articolo non voleva essere una contestazione aprioristica dello
strumento "boicottaggio", ma voleva essere una riflessione sull'uso di un mezzo
di lotta politica, che come tutti i mezzi può e deve essere messo in
discussione. Credo, al contrario che affermare che uno strumento sia valido o
non valido di per sé, corrisponda ad una valutazione "a prescindere" dal
dato materiale e culturale nel quale si inserisce e pertanto "falsa" in termini
ideologici.
Un ulteriore argomento che tu adotti è quello che "non possiamo
attendere la rivoluzione che verrà..." e poi "non credo ad una
rivoluzione di pochi...". Mi sembra che tu, in questo caso, utilizzi una delle
argomentazioni care ai nostri avversari riformisti, che da sempre, accusandoci
di chiuderci in un astratto settarismo, ci dicono che loro fanno questo e
quest'altro, che bisogna votare altrimenti succede che..., che loro le cose le
fanno..., che se aspettiamo la rivoluzione non succederà mai nulla.
Sulle nostre incapacità e limitatezze politiche non ho alcun dubbio, sul
fatto che venga usata la rivoluzione come termine comparativo per nascondere
posizioni politiche non accettabili questo è un altro fatto. Non posso
credere, infatti che tu pensi realmente che noi pensiamo e ci pensiamo nella
dicotomia "o il boicottaggio in questo modo o la rivoluzione": non fosse per
altro che molti di noi si sporcano quotidianamente in battaglie politiche,
sindacali e di altro tipo "concrete". E tra l'altro non abbiamo mai avuto
problemi a sostenere azioni di vario tipo, tra cui il boicottaggio, conformi al
nostro modo di intendere la politica. Sarebbe come se io dicessi: "sono
contrario all'accordo sindacale che avete stipulato" ed un altro mi rispondesse
"in attesa della vostra rivoluzione, noi difendiamo i lavoratori e questo era
il miglior accordo che si potesse ottenere." Parlando di rivoluzione l'altro
non mi direbbe null'altro se non che non si può parlare del contratto.
È una tecnica retorica facile, ma dalla quale è necessario
uscirne.
Come dici tu non lasciamo nulla di intentato (occupazioni, scioperi ,
boicottaggi...), cerchiamo di metterci in gioco anche su cose parziali, ma non
smettiamo mai di pensare a cosa facciamo e soprattutto al modo in cui lo
facciamo.
Pietro Stara
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