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Da "Umanità Nova" n.16 del 6 maggio 2001
Balcani
Dopo la Macedonia... un Montenegro
La situazione nei Balcani, come era prevedibile, non
accenna a normalizzarsi. In un recente articolo su UN avevo analizzato la
situazione che si era venuta a creare in Macedonia a seguito dell'offensiva del
neo UCK, ora, grazie al penetrare anche in Italia di informazioni più
dettagliate, è possibile ampliare i ragionamenti fatti in
quell'occasione. In più le recenti elezioni montenegrine, con il mancato
trionfo di Milo Djukanovic, leader dello schieramento indipendentista della
seconda repubblica della Federazione Jugoslava, hanno aperto nuovi scenari di
confronto nella regione.
In primo luogo, per quanto riguarda la repubblica macedone, l'assenza di
combattimenti sembra non debba significare molto. Ci sono, infatti notizie
recenti che danno per certa la riapertura del conflitto da parte del nuovo UCK,
denominato per l'occasione UCKM (ossia, Esercito di Liberazione Nazionale degli
albanesi di Macedonia).
La componente prettamente UCK, guidata da Hashim Thaci, e in stretto contatto
con il PDA (Partito Democratico Albanese, rappresentante degli albanesi di
Macedonia, guidato dall'anziano e malato Arber Xhaferri, il cui probabile
successore è il cugino di Thaci, Merdan Thaci), sembra essere scavalcata
dalla componente AAK, ossia l'Alleanza per il futuro del Kosovo.
Quest'ultima nasce da una scissione del PDK (il braccio politico dell'UCK),
consumatasi nel marzo del 2000, a seguito dell'evoluzione in senso pragmatico
di Hashim Thaci. D'altra parte la convivenza nel PDK di queste due anime era un
fatto recente: i due gruppi che avevano animato la guerriglia si erano fusi
solamente il 15 ottobre 1999, allo scopo di trasformare il predominio militare
conquistato unitamente grazie ai bombardamenti NATO della primavera del 1999,
in predominio politico.
La componente che fonderà poi l'AAK è una componente di
provenienza m-l corretta con massicce dosi di nazionalismo. La fine
dell'Albania di Hoxha, ha mutato in profondità la natura di questo
gruppo, che oggi si pone in modo esclusivo come rappresentante del nazionalismo
grande albanese. La progressiva trasformazione di questo gruppo ha permesso
l'avvicinamento con l'UCK, verace rappresentante di una parte consistente dei
clan kosovari, e il cui sviluppo è stato permesso dagli stretti rapporti
intrattenuti prima con i servizi segreti tedeschi e poi con quelli americani.
Questo gruppo, denominato LPK (Movimento Popolare Albanese), arriva così
all'alleanza con l'UCK, con il programma strategico di utilizzare le postazioni
avanzate nel Kosovo, per continuare la strategia militare di costruzione della
Grande Albania.
La strategia pragmatica e attendista di Thaci spinge però questa
componente radicale a rompere con il PDK, fondando l'AAK, sotto la direzione di
Ramush Aridanaj, ex generale dell'UCK.
Entrambe le formazioni, come ricordato nel precedente articolo subiscono un
pesante ridimensionamento alle elezioni kosovare del 28 ottobre 2000: mentre
Rugova e la sua LDK, legati all'ex presidente albanese Berisha e alla
diplomazia italiana, vincevano con il 58%, il PDK ottiene il 27% e l'AAK
l'8%.
Come abbiamo già ricordato, la prima conseguenza di questa sconfitta da
parte dei due tronconi dell'ex UCK è l'intensificarsi della campagna di
pulizia etnica in Kosovo verso serbi, rom, gorani, turchi e egiziani e,
insieme, l'avvio di una guerra per clan contro i sostenitori di Rugova. La
posta in gioco, ovviamente, non è solo di tipo politico e ideologico; il
controllo del Kosovo, oggi, vuol dire il controllo di uno dei principali
crocevia dei traffici di droga, armi e prostitute tra l'Occidente, la Turchia,
la Russia e il Vicino Oriente.
Il secondo strumento messo in opera dai radicali è la fondazione di due
"eserciti di liberazione" operanti il primo in tre comuni serbi a maggioranza
etnica albanese (Presevo, Medvedja e Bujanovac), mentre il secondo cerca di
sollevare le popolazioni albanofone della Macedonia.
Le operazioni del primo esercito vengono facilitate dalla presenza di una
fascia smilitarizzata di alcuni chilometri in territorio serbo, ai confini del
Kosovo. Durante il mese di Novembre del 2000 le operazioni dell'UCK versione
UCPMB (Esercito di Liberazione di Presevo, Medvedja e Bujanovac) proseguono
indisturbate, grazie all'interessata distrazione del contingente americano
della KFOR che controlla proprio l'area dove il nuovo UCK ha stabilito le
proprie retrovie.
Questo atteggiamento da parte americana non deve stupire, dal momento che il
PDK rimane l'organizzazione sponsorizzata dagli USA nell'area del Kosovo, e che
il successo di Rugova non è stato accolto positivamente al Dipartimento
di Stato di Washington. D'altra parte l'appoggio all'attività del nuovo
UCK rispondeva a una strategia di destabilizzazione della Serbia.
Due elementi sono però venuti a mutare questo quadro (almeno per ora):
il primo è rappresentato dalla vittoria alle elezioni presidenziali
jugoslave di Kostunica, con la conseguente cacciata di Milosevic, il secondo
è rappresentato dal fatto che Bujanovac si trovi sull'asse stradale
Vienna-Salonicco, che gli occidentali erano intenzionati a riaprire, proprio a
seguito del cambio della guardia a Belgrado. La rottura di questo asse
stradale, avrebbe oltretutto rappresentato un chiaro segnale negativo verso il
nuovo gruppo dirigente jugoslavo che, invece, l'area dei paesi NATO ha
intenzione di integrare nel nuovo ordine balcanico.
A dicembre si avrà così, prima il bombardamento anglo-americano
delle piste di rifornimento dell'UCPMB, poi, l'autorizzazione all'Esercito
Jugoslavo per l'occupazione della fascia smilitarizzata.
Queste due reazioni all'azione dell'UCPMB, costringeranno quest'ultimo alla
ritirata, non prima, però, di aver reso nota la direzione del gruppo.
Quest'ultima risulta composta da Jonuz Musliu, appartenente alla direzione
dell'AAK kosovaro, e da Halil Selimi, funzionario del PDK di Thaci, dato come
in rotta con il leader dell'ex UCK.
In conseguenza di questo smacco, l'area radicale del nazionalismo
albanese-kosovaro, si dedica alla destabilizzazione della Macedonia, occupando
il 25 febbraio i villaggi di Tanusevci, Brest, Gosince e Malina. Ai primi di
marzo l'offensiva dell'Esercito Macedone, appoggiato politicamente
dall'occidente disperderà le forze di quest'altro UCK (che in questi
giorni viene denominato UCKM). Nei giorni seguenti, però, quest'ultimo
aprirà un nuovo fronte nella zona di Tetovo, dalla quale verrà
respinto nella seconda metà del mese di marzo.
Durante questi avvenimenti l'AAK svolgerà una sua politica sempre
più differente da quella del PDK di Thaci. Se quest'ultimo, infatti, pur
partecipando alle azioni di guerriglia in Macedonia, affida le sue speranze
all'affermazione all'interno del PDA (che, ricordiamolo, vanta ben quattro
ministri nel governo di centro-destra albanese)di Merdan Thaci, l'AAK fonda
l'11 marzo il PDK (Partito Democratico Nazionale degli albanesi di Macedonia),
diretto da Kastriot Haxhirexha, e formato da transfughi del PDA.
Attualmente, la situazione è fluida; l'AAK mantiene stetti rapporti con
il Partito Socialista di Fatos Nano al potere in Albania, ma, dal momento che
quest'ultimo non può permettersi di appoggiare ufficialmente il progetto
grande-albanese, la direzione del movimento kosovaro si propone la fondazione
di un grande Kosovo, al quale siano annessi la Serbia meridionale e la
Macedonia occidentale. Questo gruppo opera cercando di mantenere il massimo di
destabilizzazione possibile in queste due regioni, mirando a una nuova Dayton,
oppure a un cambiamento di orientamento da parte degli anglo-americani, che
porti a una ripetizione dello scenario dell'"intervento umanitario" del 1999 in
Kosovo. Lo scopo tattico dell'AAK è quello di mantenere in vita un
"problema albanese" nei Balcani, contando che, prima o poi, il suo irredentismo
possa incontrare gli interessi occidentali nel "grande gioco" dei Balcani.
D'altra parte la sua capacità di mobilitazione, nonostante le sconfitte,
sembra essere rimasto intatto, e le potenze occidentali, pur avendo appoggiato
la repressione delle ultime offensive irredentiste, non sembrano avere la
minima intenzione di bloccarne le attività a monte, cioè in
Kosovo. Il mantenimento di una situazione di destabilizzazione continua
dell'area, garantita da questi movimenti, è, oggi, l'alibi maggiore per
giustificare l'occupazione militare di alcune aree della Penisola Balcanica, lo
stazionamento di migliaia di militari in condizioni di pronto intervento e, per
quanto riguarda gli USA, per poter mantenere il suo status di potenza
europea.
Spostandoci di pochi chilometri, ci troviamo nell'epicentro di un altro futuro
terremoto balcanico; il Montenegro, ultimo alleato della Serbia nello sfascio
jugoslavo, ha votato la scorsa settimana, premiando solo su misura l'alleanza
guidata dal Presidente Djukanovic. I risultati sono stati i seguenti: il 42%
dei voti è andata a questa alleanza, il cui programma è il
distacco dalla Jugoslavia (che verrebbe così a morire), previo
referendum e legge costituzionale, mentre il 40,5% è andato all'alleanza
gestita dall'ex Presidente montenegrino e attuale premier federale, Momir
Bulatovic, l'8% è andato al partito albanese, che rivendica l'autonomia
del Sud del paese (a quando un UCK anche qui?), mentre il restante 10% è
andato all'alleanza liberale che pretende l'immediato distacco da Belgrado e
considera Djukanovic poco meno che un traditore.
Non abbiamo lo spazio in quest'articolo di occuparci dell'insieme delle
questioni aperte dal voto montenegrino, ci limitiamo, quindi, per ora, a
elencarle.
In primo luogo, lo scontro in atto tra Djukanovic e Bulatovic non è uno
scontro tra liberali e stalinisti, né tra patrioti montenegrini e servi
di Belgrado. Djukanovic è stato un membro ortodosso della Lega dei
Comunisti Jugoslava, poi un fedelissimo di Milosevic, che guidò
l'assalto delle truppe montenegrine a Dubrovnik durante la guerra serbo-croata
del 1992. A cavallo del 1997 -98, iniziò a maturare il distacco da
Milosevic e dalla Jugoslavia, a seguito del progressivo isolamento del regime,
attuato da parte dell'Occidente. Le motivazioni, però, non sembrano
essere molto nobili, e discendono da un lato dalla volontà di
agganciarsi al Piano di Stabilizzazione previsto dalle potenze NATO, con
conseguente ricaduta di dollari per gli "stati responsabili".
Dall'altra è presente un conflitto tra clan mafiosi che, in questi anni
di sanzioni occidentali verso la Jugoslavia, sono cresciuti sulla gestione dei
traffici soprattutto con l'Italia. Nella volontà di distaccarsi da
Belgrado può essere letta anche la volontà, da parte dei clan
rappresentati politicamente da Djukanovic, dalla potentissima mafia
montenegrina alleata di Milosevic e stabilitasi a Belgrado.
Nella vicenda della possibile indipendenza montenegrina, si deve poi leggere un
conflitto tra due parti della nuova dirigenza Jugoslava, in particolare tra il
Presidente federale Kostunica, e il neo Presidente serbo Djindiic, uomo di
Berlino nell'area, visti i suoi legami di antica data con la dirigenza
socialdemocratica tedesca, e interessato alla definitiva integrazione del suo
paese nel nuovo ordine balcanico. Quest'ultimo e Kostunica hanno, quindi,
chiari e profondi motivi di potere per operare in un senso piuttosto che
nell'altro su questa questione. Kostunica, infatti, se la Jugoslavia sparisse,
perderebbe qualsiasi ruolo, e con lui tutta l'area che in Serbia scommette su
una rivincita della vecchia classe di intellettuali e ceto medio emarginato nel
periodo titino. Djindiic, d'altra parte, scommette, invece sulla sparizione
della Jugoslavia, in modo da restare da solo al timone della Serbia, e con lui
una nuova classe di imprenditori e funzionari modernizzanti, legati
strettamente all'Europa, e, in particolare alla Germania.
La carne sul fuoco, come si vede, continua a essere molta nei Balcani e la
continua destabilizzazione dell'area rimane funzionale a precisi interessi
delle potenze occidentali, impegnate in un grande gioco nell'area, condotto
dagli anglo-americani, ma nel quale ognuno dei partecipanti cerca di garantirsi
uno spazio di influenza.
Giacomo Catrame
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