Da "Umanità Nova" n.16 del 6 maggio 2001
Dibattito
Alcune tesi sulla globalizzazione
Premessa
Con il termine ormai abusato e inflazionato di "globalizzazione" (o
mondializzazione) si tende a definire un insieme complesso di fenomeni che
riguardano le trasformazioni del modo di produzione capitalistico, l'estensione
di questo a livello planetario ed i loro effetti più marcati sulle
popolazioni ed i lavoratori di tutto il mondo.
Al di là del fastidio per le mode semplificatorie che, in questo caso
come in altri (ricordiamo l'abuso del termine postfordismo), pretendono di
ridurre a etichetta fenomeni molto complessi, possiamo assumere questo termine
a patto che ne sia ben chiara la natura di processo storico, di trasformazioni
in atto, di fase specifica all'interno di un lungo ciclo di crisi e di
ristrutturazione capitalistica.
Infatti tutte le premesse della situazione attuale risiedono nella naturale
tendenza del capitalismo ad espandersi a livello mondiale e nelle sue cicliche
crisi di accumulazione, delle quali l'ultima dura ormai dalla metà degli
anni '70.
Il crollo del blocco dei paesi dell'est, iniziato alla fine degli anni '80 e
sebbene non se ne vedano ancora dispiegate tutte le conseguenze, ha segnato un
po' lo spartiacque di questo ciclo perché, da un lato, ha bruciato
risorse economiche e produttive su scala gigantesca creando le premesse di una
ripresa dell'accumulazione capitalistica su scala globale e, dall'altro, ha
sconvolto gli equilibri geo-politici mondiali.
Tutto questo complesso di questioni deve essere affrontato con la necessaria
articolazione e consequenzialità di approccio.
In primo luogo è necessario arrivare ad una comprensione non
superficiale degli aspetti più marcatamente economici e produttivi di
quelli che d'ora in poi definiremo processi di globalizzazione. In secondo
luogo bisogna affrontare il problema del riassetto geopolitico mondiale e delle
sue ricadute sugli assetti istituzionali statuali tradizionali e sugli
organismi sovranazionali. Solo a questo punto può essere possibile
individuare le contraddizioni nuove e più profonde che i processi di
globalizzazione aprono. Tra queste, la contraddizione immanente al modo di
produzione capitalistico tra capitale e lavoro, nella globalizzazione assume
nuove forme che in qualche modo sono esemplificate dall'eterogeneità dei
movimenti transnazionali di opposizione che stanno crescendo. Infine, ed
è il compito ovviamente più difficile, è necessario
individuare le coordinate sulle quali una strategia internazionalista,
libertaria e rivoluzionaria possa articolarsi.
Economia, produzione, lavoro
Abbiamo già rilevato come con globalizzazione si intenda in
realtà un complesso di fenomeni economici, politici e sociali di vasta
portata e interconnessi tra loro, che hanno scardinato gli equilibri della fase
precedente o quanto meno li hanno messi profondamente in crisi.
Dal punto di vista macro-economico è necessario distinguere almeno tre
aspetti della cosiddetta globalizzazione capitalistica e i relativi ordini di
trasformazione: quello finanziario, quello produttivo e quello del mercato e
della distribuzione.
Dal punto di vista finanziario non è tanto la massa dei capitali messa
in movimento (altre epoche hanno visto movimenti comparabili), né
l'estensione globale di questi movimenti (vale l'osservazione precedente) ad
essere tratto distintivo di questa fase, ma bensì la quasi totale
mancanza di vincoli ed ostacoli a questi spostamenti (fine della divisione del
mondo in blocchi), la loro velocità (qualcuno ha parlato, non a
sproposito, di "turbocapitalismo") e l'intreccio, ormai inestricabile, tra
capitali speculativi e di investimento.
Dal punto di vista produttivo - ridimensionate le ansie millenaristiche dei
teorici del post-fordismo - rimane tuttavia il fatto che gli alti costi di
strutture produttive concentrate hanno determinato un decentramento produttivo
che si è avvalso anche dell'assenza di vincoli e restrizioni - di cui
facevamo cenno al punto precedente - per oltrepassare i singoli confini
nazionali. Il paradigma dell'azienda-rete definisce in sostanza una struttura
produttiva decentrata e flessibile, che supera l'ambito nazionale,
sostanzialmente più fragile (perché fondata sulla rapidità
e l'efficienza dei trasporti e delle comunicazioni) ma in grado di scaricare i
costi ed una parte dei rischi verso il basso e dunque principalmente verso la
forza-lavoro. Anche se questa non fosse ancora la tipologia produttiva egemone
(lo è probabilmente nei paesi industriali avanzati) è evidente il
suo rapporto cruciale con i processi di globalizzazione produttiva. Questa
stessa flessibilità, resa necessaria dalle difficoltà di
accumulazione, spiegherebbe il fenomeno - che alcuni segnalano - di un relativo
prevalere di joint-venture e di altre forme "associative" più o meno
temporanee fra grandi aziende anche di diversi paesi, rispetto alla
tradizionale struttura rigida delle multinazionali.
Infine per quanto riguarda il mercato e la distribuzione (il capitale
cioè di origine commerciale) sono in atto, oltre a processi crescenti di
concentrazione, intrecci con finanza e produzione e una crescente
capacità di determinare le scelte di quest'ultima.
Sul terreno sociale i processi di globalizzazione si innestano con tendenze
già in atto e, caso mai, ne accelerano le velocità. Per i paesi
occidentali industrialmente avanzati ci riferiamo al sistema di garanzie
sociali conosciuto come Welfare, alle politiche keynesiane di piena
occupazione, alla certezza della stabilità occupazionale, ottenuti anche
per merito di un compromesso sociale tra il movimento operaio istituzionale e i
poteri forti della società borghese. In Italia tutto questo è in
via di smantellamento da parecchi anni (almeno dagli inizi degli anni '80) ed
oggi assistiamo ad una accelerazione di questa tabula rasa. L'elemento nuovo
è forse - oltre la "aziendalizzazione" di alcuni servizi di
amministrazione dello Stato e della scuola e più che la privatizzazione
di altri servizi - la vittoria ideologica del neo-liberismo per cui ogni
taglio, ogni peggioramento delle condizioni dei lavoratori e dei cittadini
è visto come "opportunità", come "ammodernamento", come
"allineamento" agli standard di altri paesi occidentali. Diverse sono
probabimente le dinamiche in altri paesi dove i processi di globalizzazione
hanno pienamente introdotto (con il trasferimento di capitali e di
attività produttive) un capitalismo selvaggio - ma fortemente espansivo
- e fatto crescere una classe lavoratrice con poche o nessuna eredità e
tradizione da difendere, ma da conquistare ex novo.
In generale possiamo dunque individuare alcune caratteristiche fondanti e
identificative di questi processi: in primo luogo l'estrema flessibilità
dell'accumulazione capitalistica e del lavoro. Mentre la prima non soggiace
più a regolazioni, il costo del secondo - in forza della
precarietà e della concorrenzialità - diventa marginale rispetto
ai profitti. In secondo luogo c'é una loro velocità accresciuta
rispetto anche ad un recente passato, che spesso ne confonde i contorni, ne
amplifica l'apparente portata e, in definitiva li rende meno controllabili. In
terzo luogo c'é la stretta dipendenza da un'innovazione tecnologica
sempre più spinta (trasporti, telematica, informatica, ecc.) che da
questi processi riceve un ulteriore impulso. La stessa ricerca scientifica
è sempre più subordinata alle loro logiche.
Istituzioni nazionali e sovrannazionali
Un'altra importante serie di questioni da considerare sono quelle legate
al riassetto geopolitico mondiale che è seguito, come abbiamo già
detto, il crollo dell'assetto di Yalta.
Al di là della frantumazione dell'impero sovietico e dei paesi satelliti
secondo linee di nazionalità, lingua, tradizioni religiose e dei
sanguinosi tentativi di ricomposizione a cui abbiamo assistito e stiamo
assistendo, c'è un accrescersi di importanza di organismi
sovrannazionali e una loro proliferazione spettacolarizzata sul terreno
economico, politico e militare.
Alcuni di questi (siano strutture permanenti o sessioni di lavoro di accordi
internazionali più o meno permanenti) esprimono semplicemente rapporti
di forze tra la potenze mondiali: FMI, BM, WTO, G8, ecc. oppure NATO e le altre
alleanze sul piano militare. Altri assumono un carattere apparentemente
democratico e/o umanitario: ONU e tutti i suoi organismi e, su un piano
più specifico, l'UE. Si tratta, sempre e comunque, di tentativi di
controllare, se non di governare, processi su scala planetaria che spesso
mettono in discussione - per la rapacità dello sviluppo capitalistico -
le stesse premesse di equilibrio minimo sulle quali questi si fondano.
Una seconda serie di questioni da considerare è quello della crisi della
forma tradizionale dello Stato - almeno nella sua forma occidentale democratica
moderna - e del cambiamento delle sue funzioni. Lo Stato, in apparenza,
rinuncia al governo dell'economia e alla gestione di politiche sociali
pervasive (politiche keynesiane e di welfare) per attestarsi principalmente su
funzioni di controllo sociale, del territorio, poliziesco e militare. Nella
sostanza spesso mantiene funzioni importanti di supporto e di
sussidiarietà al privato e tutte le possibilità di rientrare al
timone in tutti i settori strategici dell'economia, se e quando ciò
diventasse necessario.
Una terza serie di questioni da esaminare - collegata alla crisi
dell'istituzione statuale, almeno nei limiti del punto precedente - è
quella dello sviluppo di forme di regionalizzazione, sia in termini nazionali
(autonomie regionali all'interno dei singoli paesi), sia in termini
transnazionali (aree regionali omogenee in paesi confinanti). Anche qui,
sostanzialmente, vige il principio della complementarità (piuttosto che
della contrapposizione) di funzioni tra questi livelli e quelli tradizionali:
nazionale e sovranazionale.
(continua)
Guido Barroero
Avvertenza: Questo articolo è stato steso materialmente da me,
sulla base di una serie di punti ampiamente discussi e condivisi all'interno
del Coordinamento Anarchico Genovese. È dunque esclusivamente per
correttezza formale che lo firmo a titolo personale.
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