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Da "Umanità Nova" n.17 del 13 maggio 2001

Montenegro
Qualcuno scrive al colonnello

Il risultato delle recenti elezioni in Montenegro, del quale accennavo nel mio precedente articolo, segna un altro passaggio in quella lunga partita che le potenze occidentali e le dirigenze balcaniche sopravvissute al crollo del socialismo reale, hanno iniziato a giocare a partire dal 1989.

Il trionfo mancato dell'Alleanza indipendentista, riunita intorno al Presidente Dijukanovic, non segna la crisi del progetto di rottura dell'unità federale, bensì della gestione dell'intera questione da parte dello stesso Dijukanovic.

Ma, andiamo per ordine: chi è Dijukanovic? È, sostanzialmente, uno dei tanti camaleonti ai quali la scena balcanica di questi anni ci ha abituato. Inizia la sua carriera come funzionario della Lega dei Comunisti Jugoslavi alla fine degli anni Settanta, durante l'ascesa di Milosevic, partecipa al progetto nazionalista grandeserbo di quest'ultimo. Si deve, infatti, ricordare che la Repubblica montenegrina, nonostante la secolare indipendenza del Montenegro (neppure gli Ottomani riuscirono mai a piegare il piccolo principato-vescovado), né durante il regno serbo-croato-sloveno, né durante il regime titino ha mai sviluppato una propria autonoma presenza nel contesto jugoslavo.

Questo fatto dipende da una serie di ragioni: la prima è che il Montenegro è storicamente legato alla Serbia da lingua e cultura, la seconda riguarda la piccola dimensione della Repubblica che, nel corso degli anni si è adattata al ruolo di sbocco al mare della Serbia, la terza è il legame stretto che si è venuto a creare con la Serbia dal punto di vista economico. Legame, quest'ultimo, che spiccava in contrasto con il progressivo saldarsi di un legame economico tra Croazia e Slovenia, venendo così, progressivamente, a creare un elemento non secondario di quella divisione in due società civili e economiche della Jugoslavia, che avrà tanta parte nelle vicende dell'ultimo decennio.

Non meraviglia, quindi, che Dijukanovic, quando Milosevic si impegnò nella guerra serbo-croata del 1992, non ebbe dubbi su quale fosse la sua parte, e inviò le divisioni montenegrine dell'ex esercito federale a assediare Dubrovnik.

Dijukanovic, però, si è dimostrato un giocatore pragmatico nel corso di questi anni; infatti, da un lato si è dedicato alla protezione del contrabbando che ha permesso la continuazione dei commerci tra l'Occidente e la Federazione sottoposta a sanzioni, dall'altro ha adottato un progressivo sganciamento da Milosevic, e, quindi, da Belgrado. Dijukanovic si è avvantaggiato della necessità occidentale di trovare una sponda all'interno della Federazione Jugoslava in funzione anti-Milosevic. La sua politica da quando, dopo Dayton, Milosevic, sconfitto militarmente e sempre più emarginato politicamente sul piano internazionale, deve rinunciare a ogni progetto di costituzione di un grande spazio serbo-montenegrino, consiste nel differenziarsi di fronte all'Occidente da Belgrado e a minacciare il distacco dalla Jugoslavia, senza peraltro arrivare a rischiare l'intervento armato di Belgrado.

Il periodo convulso seguito all'aggressione NATO ha permesso a Dijukanovic di accelerare il processo di distacco dalla Serbia, con l'appoggio dell'Occidente. L'unico motivo per il quale questo evento non si è verificato è la presenza di un consistente schieramento anti indipendentista all'interno del paese, pronto al confronto armato nel caso di una forzatura governativa in questo senso.

Nel contempo, però, il Montenegro ha avviato una propria politica economica in grado di sganciarlo da Belgrado, collegandosi alla Croazia nel progetto di costituzione di un asse di scorrimento adriatico che da Zagabria, tramite Zara, Ploce e Dubrovnik, si sarebbe dovuto collegare al poto montenegrino di Bar, e da lì a Durazzo (in Albania), a Skopije e a Salonicco. Il senso del progetto sarebbe stato quello di costruire un alternativa al corridoio di scorrimento X che collegava Berlino a Salonicco, toccando Zagabria e Belgrado.

La realizzazione di questo progetto avrebbe integrato in modo definitivo Podgorica nella sfera d'influenza croata e, quindi nelle speranze montenegrine, all'interno dell'area balcanica quasi dentro l'Unione Europea.

La vittoria di Kostunica e l'uscita di scena di Milosevic ha rotto le uova nel paniere di questo piccolo boss balcanico; infatti, l'Occidente ha iniziato a considerare in modo diverso l'area, disponendo ora di un credibile referente in Serbia. L'ammissione di Belgrado nel patto di stabilità e la riapertura del corridoio X dimostrano che oggi le potenze occidentali (in primis la Germania, vera regista occulta insieme a Grecia e Italia del cambio di regime jugoslavo) puntano sulla stabilizzazione dell'area integrandovi la Serbia e utilizzando le infrastrutture già esistenti sul suo territorio per costruire una rapida e sicura strada di collegamento verso il Vicino Oriente.

Allo stesso tempo la fine politica di Milosevic ha privato Dijukanovic del suo ruolo di contraltare filo occidentale del "tiranno di Belgrado".

All'improvvisa condizione di marginalità, il Presidente montenegrino ha risposto con una strategia di accelerazione del processo di distacco e con un crescendo di provocazioni verso la nuova dirigenza federale.

Dirigenza federale che ha cooptato al ruolo di nuovo primo ministro federale un esponente del Partito Socialista Popolare (SNP, l'esponente è Zoran Zizic), partito antiindipendentista e legato a Milosevic, dal momento che il partito di Dijukanovic non si è reso disponibile a alcuna collaborazione e, non possiede seggi al Parlamento Federale, avendo boicottato le ultime elezioni. L'appoggio al governo della DOS e al Presidente Kostunica da parte dell'SNP, ha voluto significare per questo partito una rottura con il suo recente passato, simboleggiata dal distacco nei confronti del Partito Socialista Serbo già di Milosevic, e dall'emarginazione del fondatore, Momir Bulatovic, giudicato troppo compromesso con il passato regime.

Dijukanovic, ha, quindi, proposto a Kostunica un percorso che prevede l'indipendenza formale di Serbia e Montenegro, il loro riconoscimento internazionale e, infine la costituzione di un'Unione serbo-montenegrina, limitata all'esercito, alla politica estera e alla moneta.

Ovviamente questa posizione è risultata inaccettabile per la dirigenza federale che, vedrebbe perdere ogni potere in una Confederazione di tale fatta; Dijukanovic invece ha trovato un inaspettato (...ma non troppo) alleato nella sua battaglia in Zoran Dijndiic, presidente serbo, leader dell'ex opposizione anti Milosevic DOS, e vero uomo forte di Belgrado, grazie ai rapporti privilegiati con la Germania, e in particolare con la dirigenza socialdemocratica oggi al potere a Berlino (per la cronaca, il nostro eroe ha fatto il 68 a Berlino nelle file della Gioventù Socialdemocratica Tedesca).

La partita giocata da Dijndiic è chiara: la trasformazione delle Federazione in Confederazione produrrebbe la fine politica di Kostunica che diventerebbe un puro rappresentante dell'Unione, e la sua ascesa, in quanto Presidente serbo, a uomo forte del paese.

In questo scenario le elezioni in Montenegro hanno prodotto una situazione per la quale Dijukanovic non può arrivare tranquillamente a un referendum sull'indipendenza del paese senza timore di perderlo, vista la consistenza elettorale del fronte filo-federale; d'altra parte il mancato raggiungimento della maggioranza assoluta da parte dell'alleanza da lui capitanata, lo costringe all'alleanza governativa con la piccola Alleanza Liberale, ultraindipendentista.

Sul piano federale, il risultato di questo scontro, insieme a quello sorto sulla sorte di Milosevic, deciderà degli equilibri di potere in quel che rimane della Jugoslavia. Un eventuale trionfo di Dijndiic segnerebbe in modo definitivo il successo del processo di occidentalizzazione della dirigenza serba e, quindi, la marginalizzazione di quella parte della dirigenza serba, espressa dal paese profondo, ancora legata a una visione nazionalista e indipendente del ruolo della Serbia in Europa e nei Balcani. Un'eventuale stop di questo processo vedrebbe, invece, la ricerca di nuovi equilibri tra queste due componenti della classe dominante serba. Come ne uscirà un paese tuttora profondamente diviso tra città occidentalizzate e campagne tradizionaliste che, non a caso, ha fornito base di massa e sostegno a Milosevic durante l'incubo della Grande Serbia, è un'assoluta incognita.

La forza degli "occidentalizzanti" è chiara ed è quella dei capitali occidentali e della progressiva integrazione nell'area del marco. Quanto queste sirene potranno sedurre un paese in ginocchio che solo oggi si sta svegliando dalla sbornia del nazionalismo miloseviciano è da vedersi; anzi, a mio avviso, la reazione probabile della Serbia profonda sarà quella di chiudersi in un rancore viscerale verso chi ha sconfitto il loro orribile sogno. In conseguenza, una parte considerevole del paese darà probabilmente fiducia a chi promette di mantenere una certa "dignità serba" nel processo di integrazione del paese nell'Europa.

Come si vede, quindi, la partita è aperta e, per le popolazioni dell'area, questo vuole dire trovarsi ancora una volta a giocare il ruolo di più o meno consenzienti pedine di uno scontro di poteri che ancora non accenna a finire.

Giacomo Catrame



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