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Da "Umanità Nova" n.19 del 27 maggio 2001

Bollire il pianeta
Il piano Bush per l'energia

Il 17 maggio il presidente americano Bush ha presentato il piano per risolvere quella che ha descritto come la più grande crisi energetica che gli Stati Uniti devono affrontare dopo quella degli anni '70. Dai giornali si apprende che il piano prevede una strategia basata su una vasta deregulation mirata ad ammorbidire regole e normative in tema di rilascio di autorizzazioni a nuovi e vecchi impianti per la generazione di elettricità, sull'apertura allo sfruttamento petrolifero di aree protette come National Wildlife Refugee dell'Artico, sull'incentivazione dello sfruttamento del carbone e del gas naturale, sul rilancio del nucleare, sull'ammodernamento delle infrastrutture, dai gasdotti alla rete elettrica. Non manca neppure il richiamo allo sviluppo delle energie rinnovabili, soprattutto l'idroelettrico, e l'invito al risparmio energetico. Secondo Bush nei prossimi venti anni gli Stati Uniti si dovrebbero dotare di circa 1300 nuovi impianti per la produzione di energia: uno alla settimana! Anche se il piano non lo dice apertamente gli analisti stimano in molti miliardi di dollari i benefici che deriveranno alle aziende dall'ammorbidimento di regole e normative. "Il piano Bush è uno sviluppo disastroso per gli sforzi volti a rallentare la produzione dei gas responsabili dell'effetto serra" ha dichiarato il responsabile dell'International Panel on Climate Change (IIPC) delle Nazioni Unite, una istituzione che non può essere accusata di estremismo ecologista.

Sono almeno trenta anni che si dibatte seriamente sul futuro del pianeta. Il primo campanello di allarme fu lanciato dal Club di Roma nel 1971 ma successivamente numerosi altri studi e conferenze mondiali hanno dimostrato che l'attuale sistema produttivo sta portando il pianeta alla catastrofe. A livello internazionale sono state individuate almeno 9 crisi ambientali globali; le due più urgenti sono la crisi climatica e la crisi energetica. Non è questa la sede per approfondire temi così complessi ma basta ricordare che per produrre energia attualmente l'uomo emette anidride carbonica (CO2) in una misura di 3 milioni di volte superiore a quella naturale. Se nei prossimi cento anni si dovesse realizzare uno sviluppo industriale pari all'attuale - cioè senza prendere alcuna misura destinata a diminuire le emissioni - l'umanità produrrà una variazione della concentrazione atmosferica di CO2 di 3 volte superiore alla variazione registrata in mezzo milione di anni! Si tratta di cifre folli ma purtroppo rischiano di essere "REALISTICAMENTE FOLLI". In concreto questo vorrebbe dire un aumento della temperatura da 1,5 a 3,5 gradi che porterebbe ad uno spostamento di 500/1000 km delle fasce climatiche con il relativo svilupparsi nelle zone attualmente temperate di malattie tropicali (malaria, dengue, febbre gialla, ecc.), ad un aumento del livello del mare da 35 cm a 1 metro che provocherà lo spostamento di centinaia di milioni di persone che attualmente vivono sulle coste, ad un ciclo idrogeologico più intenso con alternanza di alluvioni e siccità che porterà una diminuzione delle riserve idriche, all'infiltrazione dell'acqua di mare nella falde costiere, alla contrazione del manto forestale tropicale, alla desertificazione, a conseguenze difficilmente valutabili sulla produzione agricola, allo scioglimento progressivo dei ghiacciai con il calo della portata di fiumi e ruscelli.

Naturalmente gli industriali, gli economisti, il Fondo monetario internazionale sostengono che queste previsioni sono eccessivamente catastrofiche e che, poiché ridurre la crisi climatica, strettamente connessa alla crisi energetica, "costa" e provoca il blocco della "crescita" è necessario che i governi non facciano assolutamente nulla poiché saranno il mercato, la tecnologia e la scienza a risolvere il problema. Secondo il citato IIPC dell'ONU è invece necessario stabilizzare la concentrazione del gas serra attraverso la riduzione delle emissioni industriali, operare una efficace riforestazione del pianeta, prevedere la costruzione di dighe e barriere che proteggano le coste basse dall'inevitabile aumento del livello del mare, puntare al massimo sulle energie rinnovabili (solare, eolico, biomasse, moto ondoso che comunque non potranno produrre nella migliore delle ipotesi che il 30-40% dell'attuale fabbisogno energetico), incentivare colture adattabili alle avverse condizioni climatiche. Come si vede anche le proposte dell'ONU danno per scontato che in un prossimo futuro dovremo far fronte alle conseguenze della crisi climatica. Infatti oggi stiamo subendo le variazioni climatiche provocate dal CO2 emesso fino ad 80 anni fa e quello che emettiamo attualmente produrrà i suoi effetti fra 50-80 anni!

All'inizio del 1992 l'IIPC pubblicò un "terrificante" rapporto con gli scenari delle conseguenze della "crisi climatica". A tambur battente fu convocata una conferenza internazionale, svoltasi a Rio de Jainero, che si concluse con l'approvazione di una Convenzione sui cambiamenti climatici. Si trattava di un testo che prevedeva l'obiettivo di riportare le concentrazioni dei gas serra ad un livello tale da non essere pericoloso per il clima. Ma, soprattutto, la Conferenza di Rio sancì il principio che erano i paesi industrializzati a dover sopportare il maggior onere dei sacrifici. Al di là delle dichiarazioni di principio, a Rio le delegazioni decisero di non decidere rinviando ad una conferenza successiva ogni misura concreta. Sulla conferenza di Rio pesarono molte resistenze ben sintetizzate dall'intervento del presidente americano, Bush senior, che dichiarò senza mezzi termini che gli Stati Uniti non potevano "fermare" la loro economia "per una crisi climatica di cui il mondo scientifico non sa indicare con esattezza tempi e intensità". Da quel momento nelle conferenze sul clima che si sono susseguite si è assistito allo scontro fra gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati (Giappone, Canada e Australia) e i paesi poveri, che rivendicano il principio sancito a Rio di non dover pagare per una crisi della quale non hanno responsabilità. Nel mezzo l'Unione Europea.

In uno di questi summit, svoltosi a Kyoto nel dicembre 1997, Stati Uniti, Unione Europea e paesi poveri capitanati da Cina e India raggiungono finalmente un compromesso tradotto in un protocollo con forza di legge che prevede entro il 2012 una riduzione delle emissioni di CO2 da parte dei paesi industrializzati del 5,2% rispetto al 1990. In realtà l'importanza del documento firmato a Kyoto è solo politica visto che dal punto di vista della diminuzione dell'effetto serra i limiti imposti sono insignificanti. Oltretutto il documento non prevede alcuna sanzione per i paesi che non raggiungano gli obiettivi. Fra i tanti difetti del protocollo c'è anche quello di aver introdotto l'indecente possibilità di vendere o acquistare quote di emissioni o di scambiare la riforestazione con la diminuzione delle emissioni. Ma per le lobby industriali anche il "quasi nulla" del compromesso di Kyoto rimane "troppo". Un altro summit ambientale, assolutamente interlocutorio, si tiene a Bonn nell'ottobre 1999 ma la rottura avviene al summit successivo, quello del novembre 2000 a L'Aja, dove gli Stati Uniti si rifiutano di ratificare il protocollo di Kyoto.

È evidente che la classe dirigente americana considera la crisi climatica legata a quella energetica: accettare un taglio, sia pur minimo, alle emissioni significa mettere in pericolo le fondamenta della propria egemonia mondiale fondata su un modello economico che crea profitti sfruttando selvaggiamente le fonti di energia. Durante il G8 tenutosi a Mosca nel 1998 fu calcolato che il picco dell'estrazione del petrolio sarà raggiunto nel 2010-2015, da quel momento il petrolio comincerà inesorabilmente a diminuire provocando lo spostamento dal petrolio al gas e al carbone (guarda caso è questo uno dei punti fermi del piano presentato il 17 maggio da Bush). Gli americani sanno bene che se vogliono mantenere il loro predominio dovranno aumentare le emissioni. Altro che diminuzione prevista dal protocollo di Kyoto! Come si vede dietro i contrasti sul protocollo di Kyoto non c'è tanto la volontà europea di salvaguardare il pianeta ma uno scontro fra i vari interessi capitalistici. Nei prossimi 20-30 anni diventeranno ancor più strategiche le aree ancora ricche di petrolio, come il Medio Oriente e, forse, il Mar Caspio mentre aumenteranno i contrasti fra Stati Uniti ed Europa e aumenterà anche il ruolo della Cina e della Russia.

Italia: al servizio degli inquinatori

Si sostiene che l'Europa si batte per l'applicazione del protocollo di Kyoto ma siamo sicuri che sia vero? E in Italia cosa si è fatto di concreto? Effettivamente nei paesi del nord Europa le lotte ecologiste hanno costretto alcuni governi a tenere una posizione rigida ma gli altri paesi? In Italia, per esempio, non si è fatto nulla visto che il governo di sinistra non ha mantenuto gli impegni presi con la deliberazione del CIPE del 1998 per la riduzione dei consumi e l'abbattimento delle emissioni nel settore dell'energia e del trasporto, come il 18 maggio ha candidamente dichiarato il direttore generale del Ministero dell'ambiente, Clini. È "curioso" che il ministro dell'ambiente, "Tex" Willer Bordon, che ha più volte tuonato contro gli americani, non abbia fatto nulla per far applicare i limiti decisi a Kyoto. Vuoi vedere che ci ha presi in giro! Il suo successore in pectore, il postfascista Matteoli, ha invece parlato chiaro. In una intervista pubblicata da "La Stampa" del 18 maggio ha condiviso la dichiarazione di Berlusconi sull'accordo di Kyoto che "avrebbe effetti trascurabili per l'ambiente e devastanti per l'economia e l'occupazione", aggiungendo che "tutti vorremmo che le cose andassero meglio. Ma l'Europa sogna, mentre Bush guarda la realtà. Il pragmatismo americano traccia il solco per tutti". Avrebbe voluto aggiungere che "Bush traccia il solco e la spada lo difende" come avrebbe detto il suo eroe, Benito Mussolini, ma poi si è trattenuto. Si è anche dimenticato di dire cosa occorrerebbe fare per migliorare le prospettive del pianeta. Evidentemente il pragmatico "esperto ambientale" di Fini non lo sa. O, più probabilmente, non gliene importa nulla!

Insomma, sinistra o destra, al ministero per l'ambiente le cose non cambiano visto che continueranno a prevalere gli interessi degli inquinatori.

Indagator



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