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Da "Umanità Nova" n.19 del 27 maggio 2001

Vicolo cieco
Israele/Palestina: la guerra infinita

Lo stillicidio di vittime nel Medio-Oriente sembra non conoscere sosta, specie se la stragrande maggioranza di esse sono palestinesi, ossia sacrificati ad una causa secolare non solo dai governanti israeliani, ma anche da quelli del mondo arabo, per non parlare dei potentati politici (leggi Regno Unito ieri, Stati uniti oggi).

L'avvento dei repubblicani segna una particolare lettura della fine del bipolarismo post-muro di Berlino: il disimpegno fattivo della strategia cara ai democratici, ansiosi di passare alla storia come quelli che chiudono un libro (di nefandezze per interposto ruolo) per aprirne un altro. La sordina diplomatica americana ben si concilia con la superiorità militare israeliana nell'area; inoltre il ristagno economico arabo avvantaggia i mercati israeliani, che possono concedersi il lusso di abbattere persino costruzioni edificate in terra dei palestinesi (anche secondo i trattati di Oslo sottoscritti da Israele ma in pratica sconfessati e già sepolti sotto un mucchio di belle parole e di cadaveri) con i progetti della cooperazione di un paese amico come l'Italia, nonché di vietare il passaggio in terra propria alle decine di migliaia di lavoratori palestinesi, tanto la globalizzazione porta da quelle parti lavoratori rumeni, asiatici e di altre nazioni in cerca di sopravvivenza grazie alle rimesse degli emigrati (do you remember Italia meridionale?).

Arafat e Hamas tengono il banco non si sa se congiuntamente o meno: molti invocano un segnale forte, l'ingresso di Hamas nel governo unitario dell'Anp, anche se ciò potrebbe costare la vita al leader palestinese e spianare la strada ad un accordo Israele-Palestina dopo aver calmato le ansie vendicative di Sharon e di parte del suo elettorato oltranzista e sciovinista.

Ma parliamo di dettagli. Il nocciolo politico è tutt'altro, e ancora significativamente non toccato pubblicamente da nessuna proposta di tregua, di armistizio (a senso unico), di pacificazione. Ossia il ritorno (destabilizzante per tutti) dei profughi, carta legittima e al contempo ricattatoria in mano ad Arafat, pronta a cederla in cambio esclusivamente del blocco degli insediamenti ebraici in terra araba, anzi addirittura della distruzione delle colonie, secondo il precedente degli accordi egiziani del Sinai (quelli che costarono la vita a Sadat). Gerusalemme probabilmente è più un ostacolo simbolico che reale, sono già numerose le mappe geografiche di spartizione della città, di divisione a misura di vicolo, e di gestione sovrana o amministrativa dei luoghi sacri.

Ma gli insediamenti si legano, nella politica israeliana, al particolare rapporto con la terra da strappare alle dure condizioni geoclimatiche, nonché al controllo delle risorse strategiche del sottosuolo, acqua innanzitutto (da cui l'accordo di fondo con la Turchia per l'alleanza a monte con il detentore delle fonti, mentre a valle è sufficiente il controllo militare del Giordano e delle alture del Golan, almeno finché la Siria non supera la fase di transizione e ritrova una leadership militare perora insufficiente).

Bloccate così le cose, si attende il Messia, cioè un qualche rigurgito di coscienza delle potenze europee e/o americana, in grado di imporre qualcosa ai partner riottosi di un conflitto delle parti le cui uniche vittime, come sempre quando siamo alle prese con la realpolitik di stati, sovranità esclusive ed élite in cerca di potere, sono uomini e donne, bambini e anziani inermi, sottomessi al destino di una generazione, incappati casualmente in una morte addebitabile ai propri legittimi governanti, assoggettati ad una corsa folle verso la morte per consunzione, in cui si macinano civiltà e esistenze concrete, salvo poi sciacquarsi quotidianamente la bocca con la retorica politica del terrorismo di parte (sempre unilaterale secondo i media nostrani...) e i deficit di tutela dei diritti umani dall'altra.

Salvo Vaccaro



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