Da "Umanità Nova" n.19 del 27 maggio 2001
Dibattito/laquestionesociale
Miti e conflitti globali
L'etica del lavoro è un sogno neorealista,
ma che ne è dell'operaio al risveglio?
(B. Rosenthal)
La classe è un concetto comunista.
M. Thatcher)
Il liberismo è morto molto prima del comunismo, nel '29, e se non era
per Keynes e il suo "intervento statale" i capitalisti starebbero ancora
lì a buttarsi dalla finestra.
(Moni Ovadia)
In una recente intervista, pubblicata sul supplemento musicale de "la
Repubblica", il verde Beppe Caccia, esponente della post-autonomia veneta
nonché consigliere comunale, ha avuto il merito di esprimere
eloquentemente il punto di arrivo delle teorizzazioni della sua area politica.
In particolare, ha affermato che esiste "una sinistra reazionaria, nostalgica
dell'identità di classe, a suo modo perfettamente speculare alle piccole
patrie" di Haider e che invece essere modernamente "dentro" la cosiddetta
globalizzazione significa "cercare consenso e cercarlo perfino nella
distruzione dei vecchi legami sociali".
Di sicuro tale posizione appare fin troppo facilmente criticabile, ma è
altrettanto vero che gran parte della sinistra antagonista non parte da
presupposti molto diversi.
Siamo proprio certi però che "Il neoliberismo è stato ed è
passaggio epocale" al punto da spazzare via, come sovente ci capita di leggere,
"chiavi di lettura, schemi interpretativi, paradigmi, modelli teorici ed
organizzativi che hanno caratterizzato i movimenti antagonisti che abbiamo
conosciuto ed amato nel Novecento"?
Tra l'altro, ma questo aprirebbe un'interminabile discussione storica, molto ci
sarebbe da dire sulla tanto citata rottura del "patto sociale nato con il New
Deal" con cui negli anni '30 lo Stato americano cercò di arginare gli
effetti della "grande depressione" seguita alla crisi economica del '29, non
tanto per amore di "buongoverno" ma come risposta al pericolo della rivoluzione
proletaria, come dimostra il fatto che proprio in quegli anni, assieme al
welfare, nacque l'attuale sistema poliziesco USA e si sviluppò
una fortissima repressione "anticomunista".
Chiusa questa parentesi, si ha l'impressione che certe analisi postfordiste,
incentrate su presunte "cesure epocali", siano notevolmente -anche se
inconsapevolmente- condizionate dalla propaganda più o meno strisciante,
più o meno trasversale, con cui il capitalismo cerca di rinnovare la
propria immagine, consolidando la propria ideologia e il proprio dominio.
Basta leggere infatti la stragrande maggioranza di testi che, dall'estrema
destra all'estrema sinistra, circolano su queste questioni per accorgersi come
tutti non solo usino lo stesso linguaggio asettico e interclassista
(globalizzazione, neoliberismo, etc. sono ormai autentiche parole-feticcio) ma
finiscono per dire le stesse cose: ossia che siamo entrati nella New Age del
capitalismo, che il comunismo è fallito, che gli operai si sono estinti
come i dinosauri...
Se invece se andiamo a vedere con un po' più di spirito critico e di
serietà metodologica quanto avviene nel mondo, sia sul piano dei
rapporti economici che delle loro rappresentanze politiche e anche dei
movimenti d'opposizione sociale, ci accorgiamo che il "vecchio" è ancora
di gran lunga più determinante del presunto "nuovo".
- Anche senza essere dei marxisti ortodossi, è difficilmente
contestabile che viviamo ancora in un mondo diviso in classi (anche se queste,
ovviamente, non possono avere le stesse caratteristiche di un secolo fa); un
mondo in cui meno di mezzo migliaio di super-capitalisti può accumulare
una ricchezza superiore a quella di un terzo dell'intera umanità, mentre
almeno un miliardo di persone di questo bel pianeta muore letteralmente di fame
e 250 milioni di bambini subiscono la schiavitù de lavoro. Con buona
pace di quanti ritengono i conflitti ormai risolti nella pacificazione imposta
dal Capitale, la questione delle classi, ma soprattutto la loro
contrapposizione, persiste come problema della cosiddetta modernità o,
secondo i gusti, della post-modernità.
Questo è anzi "IL" problema.
Se si guardano i dati mondiali su tali questioni, possiamo vedere che la classe
operaia non solo non si è estinta, ma per effetto di varie scelte
"globali" (quali ad esempio: i processi di delocalizzazione e il decentramento
produttivo in nuove aree "disgraziate" dove i margini di profitto e
sfruttamento sono maggiori) si riscontra una crescita costante su base
planetaria della forza lavoro industriale che, invece di essere un segmento
residuale della società, assume un peso sociale crescente. Questo dato
viene peraltro rafforzato e confermato dal fatto che sempre più larghi
settori di lavoratori "dei servizi" vengono sottoposti a condizioni di
sfruttamento e di vita che sembrano confermare la tendenza alla
"proletarizzazione" prospettata proprio da Marx.
In estrema sintesi: a) i lavoratori industriali aumentano dal punto di vista
numerico rispetto alla popolazione mondiale (visto che si parla sempre di
"globalizzazione" applichiamo quindi tale criterio anche in questi discorsi);
b) il lavoro industriale mantiene e conferma la sua centralità sociale
anche se sotto diverse forme; c) l'organizzazione tipica dell'industria si
estende a settori della società che in precedenza ne erano estranei,
arruolando anche come agli albori del capitalismo un infelice esercito di
manodopera minorile.
Per questi motivi, un certo dibattito sulla "società postindustriale"
è il più delle volte un astratto bla-bla tra intellettuali ed una
mera resa all'esistente, sia nelle sue varianti apertamente socialdemocratiche
che in quelle che si pretendono "antagoniste".
Per influenzare significativamente le scelte dei governi, l'unica
possibilità rimane nel modificare i famosi rapporti di forza tra le
classi sociali; di fronte a tale "problemino" e anche perchè certa
"sinistra" è ormai senza più alcun radicamento nei luoghi reali
dello sfruttamento, vediamo che ormai si cerca di "aggirare" l'ostacolo,
cercando altri soggetti (terzo settore, no profit, lavoro immateriale, etc.) e
in mancanza di un'iniziativa proletaria autonoma abbastanza forte ci troviamo
di fronte a un'ondata di riformismo keynesiano che, vestendo la maschera della
radicalità, sta facendo più danni della grandine.
Purtroppo non ci sono da inventare bacchette magiche o virtuali: solo
l'autorganizzazione sociale e di classe può fornire, strada facendo, le
risposte che si cercano, così come è importante difendere la
memoria storica delle esperienze che ci hanno preceduto e la conoscenza di
quelle che altri vanno costruendo nel presente, non solo per rivendicare
diritti davanti al potere costituito, ma per affermare bisogni e libertà
incompatibili con la sua esistenza.
- Per quanto riguarda il cosiddetto "neo-liberismo", ormai divenuto il liet
motiv di ogni elaborazione teorica, una critica davvero radicale nei suoi
confronti dovrebbe partire dal fatto che questo non è soltanto una
politica economica, ma anche un mito ed un'utopia.
Se poi con il termine "neoliberismo" si vogliono indicare le tendenze del
Capitale ad affermarsi come realtà transnazionale, ben poco di nuovo si
muove sotto il sole. Senza scomodare le analisi di Lenin sull'imperialismo,
ormai è un dato storico che almeno fin dall'inizio dello scorso secolo
il capitalismo moderno ha avuto come "frontiere" solo quelle definite dai suoi
interessi "multinazionali"; basti ricordare come, in piena Seconda Guerra
Mondiale, filiali in Germania di importanti industrie americane continuarono a
produrre indisturbate per l'apparato bellico nazista, mentre da parte loro i
bombardieri USA si guardarono bene di colpirne gli stabilimenti così
come, dopo il conflitto, queste stesse industrie non vennero colpite da alcuna
sanzione per collaborazionismo con il regime di Hitler.
Se per "neoliberismo" si intende invece che, in questi ultimi decenni, è
venuto meno l'intervento statale rispetto all'iniziativa privata e allo
sviluppo economico, mi sembra che la realtà dimostri tutto il contrario:
giustamente un'ascoltatrice di Radio Popolare poche settimane fa osservava che
tutte le principali industrie italiane -a partire dalla Fiat- andrebbero
considerate "imprese pubbliche" dato che soltanto grazie al sistema di massicci
e continui finanziamenti-investimenti-sgravi fiscali estorti alle casse dello
Stato (già frutto di rapine ai danni dei lavoratori dipendenti) queste
industrie e questi "imperi economici" possono sopravvivere e garantire i
privilegi che sappiamo ad una casta di padroni che andrebbero piuttosto
definiti come degli autentici "mantenuti" a carico della collettività.
L'intervento governativo, anche se magari oggi si configura a livello europeo,
non è neppure marginale su versanti "tradizionali" quali le misure
protezionistiche a favore dei prodotti "nazionali" e l'interventismo militare
(vedi l'ultima guerra nei Balcani) nelle aree di interesse strategico per i
poteri economici; inoltre, anche a sinistra, si ipotizza la nazionalizzazione
del credito, quale misura elementare di difesa contro le crisi trasmesse dalla
finanza mondializzata; e la cosa risulta assai paradossale se si pensa che a
sostenere proposte del genere -di cui si è già visto il
fallimento in URSS- sono i fan del "nuovo" e della Tobin Tax, ossia delle
tassazioni "sociali" nei confronti del capitale finanziario.
- Nessuno in realtà è "orfano dello scontro di classe", semmai
vi sono alcuni che, dopo averne inseguito il mito per decenni, non sanno
più riconoscerlo e altri nostalgici (questo sì) di uno scontro di
classe subordinato alle logiche di conquista del potere politico e diretto da
sedicenti partiti-avanguardia verso il radioso sol dell'avvenir.
Difficile quindi non fare i conti con questo "vecchio" che non solo ha
attraversato tutto il Novecento, ma continua ad attraversare anche il presente,
ben dentro gli enormi cambiamenti che nel frattempo sono intervenuti nella
fatidica "composizione di classe".
Ad esempio, aldilà delle diverse interpretazioni che si possono dare a
riguardo, un dato su cui riflettere quando si parla del "popolo di Seattle"
è la forte componente operaia registrata durante le "storiche" giornate
di lotta contro il WTO che, tra l'altro, ha regalato una bella lezione anche a
certa sinistra che dall'anticapitalismo è passata ad un ambiguo
antiamericanismo.
Ebbene, secondo attendibili analisi interne al movimento, dei circa 60.000
manifestanti di Seattle, circa 45.000 erano americani e di questi 25.000 erano
operai, 10.000 studenti e 10.000 ambientalisti; quindi la componente "di
classe" anche in tale insolita situazione è risultata determinante,
grazie alla lunga tradizione americana di scioperi selvaggi e picchettaggi
duri.
Ulteriore dato su cui riflettere è che questa partecipazione operaia
è risultata organizzata sia nei "vecchi" sindacati dei metalmeccanici e
dei trasporti, talvolta anche su posizioni corporative, sia all'interno
dell'I.W.W., la storica sigla del sindacalismo rivoluzionario, che tra l'altro
ha fornito la propria sede per il "quartier generale" della rivolta.
Analoga mobilitazione sindacale "classica" è stata registrata in
occasione del contro-vertice a Washington, mentre a Praga abbiamo appreso che
alla testa del "corteo blu" che si è scontrato con i guardiani
dell'ordine mondiale vi erano le organizzazioni anarcosindacaliste e i
sindacati di base di mezza Europa, ossia le espressioni di quella autonomia
proletaria troppo presto data per liquidata e che invece torna ad essere punto
di riferimento pure per la cosiddetta "società civile" (e non il
contrario!).
Anche in Serbia abbiamo assistito a qualcosa che merita attenzione;
aldilà dei giudizi critici che si possono dare sul governo formato da
Kostunica, resta il dato che il regime di Milosevic è caduto non tanto
per le bombe della Nato nè per iniziativa dei partiti "democratici"
finanziati dagli USA, ma solo quando gli operai e i minatori serbi sono "scesi
in campo", bloccando con lo sciopero generale insurrezionale l'intero paese,
secondo una prassi forse "vecchia" ma sempre efficace.
Sul finire del 2000, abbiamo infine visto il riesplodere delle lotte operaie
nella Corea del Sud, con centinaia di migliaia di lavoratori in sciopero contro
i reparti antisommossa; evento questo non margimale, dato che la Corea del Sud
ha un'economia di capitalismo più che avanzato (il famoso
"turbocapitalismo") che la rende una specie di Germania dell'area asiatica.
In Italia stanno succedendo cose non meno interessanti, anche se proprio gli
amanti del "nuovo" sono gli ultimi ad accorgersene; un esempio ci viene dalle
recentissime e significative lotte alla Ducati-Motor di Bologna con scioperi
autorganizzati e picchetti duri ai cancelli come succedeva ai "vecchi tempi",
durante i quali i giovani operai "interinali" sono stati i veri protagonisti,
giungendo a coinvolgere anche i compagni di lavoro più anziani e
più garantiti.
Possibile che, di fronte a tutto ciò, non venga il dubbio che la
realtà ci stia mostrando un mondo, ed un futuro, tutt'altro che statico
e non-dinamico?
- Il problema del "che fare?" dovrebbe essere liberato da molte "complicazioni"
dettate dalla cosiddetta modernità: non c'è da inventare niente,
semmai c'è da riprendere idee, percorsi e pratiche alla luce delle
esperienze fatte e tenendo conto delle trasformazioni intervenute.
Un certo "anti-ideologismo" assai in voga è la peggiore forma di
dogmatismo possibile, anche se quasi inconsapevole; infatti se discutere con
uno che crede di "avere la verità in tasca" è difficilissimo,
discutere con una persona che sostiene che "nessuno ha la verità in
tasca" è praticamente impossibile.
Il "compagno disincantato" afferma di volersi liberare dai dogmi, ma le sue
vere nemiche sono quelle che Cartesio chiamava le "idee chiare e distinte",
perchè lui invece le preferisce oscure, confuse ed ovviamente complesse,
per questo subisce il fascino di tutti i "post": post-industriale,
post-moderno...
Egli insegue quasi misticamente la Rivelazione in grado di farci decifrare il
mondo e dirci il modo per cambiarlo; invece le nostre piccole verità
dovremmo portarle in tasca come spiccioli da scambiarci reciprocamente, salvo
poi la libertà di non accettare le eventuali "patacche".
Il "compagno disincantato" i nostri spiccioli non li vede proprio: egli si fa
allettare soltanto dai grossi assegni sui quali è scritto: "Il problema
è complesso", e quando li porta all'incasso, invece di contante gli
rifilano puntualmente un altro assegno su cui stavolta c'è scritto: "Il
problema è MOLTO più complesso".
emmerre
Le riflessioni contenute in questi appunti sono largamente debitrici verso
alcune letture: un documento dei compagni di Hibris, il n. 8-9 di
Collegamenti-Wobbly, l'articolo di Marco Revelli "Gli assassini furono tanti"
(Supplemento di Liberazione del 5.11.2000), il lavoro di Mario Coglitore "La
democrazia di classe" (in AA.VV., "Passo doppio", Unicopli), il Bollettino n.
58 del Comidad, l'articolo di Elia Rosati "Considerazioni su Seattle" (sulla
rivista vicentina La Fucina dell'11.1.2000), l'articolo di Cristiano Valente
"Il caso Zanussi: ben tornata vecchia talpa" in Comunismo Libertario n. 47,
settembre 2000.
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