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Da "Umanità Nova" n.20 del 3 giugno 2001
Marghera. Ultimo confine
Alla conclusione il processo al Petrolchimico
Difficile dire quale sia il confine tra verità e memoria, specialmente
quando è la tua vita ad essere irrimediabilmente segnata da una malattia
contratta per conto terzi dentro alla fabbrica. Difficile perfino sopravvivere,
quando la malattia ti scava da dentro e non ti lascia speranze.
Qualcuno è rimasto comunque a ricordare; sopravvissuti sottratti alla
morte certa ed impietosa che il Cloruro Vinile Monomero ha assegnato alla
maggioranza degli operai addetti ai reparti di produzione del Petrolchimico. A
raccontarla oggi, dice Alberto Pettenò, operaio a Marghera per 25 anni,
intervistato da Il Manifesto, "direi che per otto ore avevamo la bocca
dolce e ci chiedevamo perché. Racconterei che un sacco di volte, quando
la concentrazione del gas saliva troppo, ho rotto i vetri dei finestrini del
reparto. Di nascosto, perché se ti prendevano ti mandavano via." Ma il
gas non perdona e una mascherina antipolvere non poteva bastare a fermarne i
deleteri effetti. Angiosarcoma epatico, nella maggioranza dei casi, come vi ho
già raccontato in altre occasioni: enfisema polmonare, come è
capitato a Pettenò, quando andava bene. Alberto è stato
fortunato, può ancora vivere, malamente ma può.
È sopravvissuto "al campo di concentramento", così lo chiama lui,
e ha visto molti amici e colleghi di un tempo andarsene via senza una ragione
apparente. Il tumore: la malattia del secolo. Quando capita, capita. Altre
ragioni, naturalmente, stavano dietro alla diffusività terrificante non
tanto del male del secolo, quanto del male prodotto dalla lavorazione del
cloro. Ma stavolta non parleremo degli effetti clinici sulla popolazione
operaia del Petrolchimico o dei dati tecnici relativi alle lavorazioni del CVM.
E nemmeno disquisiremo di misure di sicurezza.
Stavolta parleremo delle cause, delle origini più o meno lontane di un
singolare sistema di potere e di controllo sul territorio che, a distanza di
anni, abbiamo scoperto capace di modificare perfino un intero ecosistema.
Parleremo della fabbrica, uno dei luoghi recentemente meno frequentati dalla
colta aristocrazia di sinistra, Marco Revelli in testa, che ci persuade con
sottili analisi sulla bontà e necessità del lavoro globale,
adesso che il vecchio, meglio ancora arcaico stabilimento, può essere
definitivamente dismesso. Anche dalla memoria, se possibile. Eppure è
proprio la fabbrica, con i vetri rotti di Alberto, che torna nel racconto dei
testimoni, un luogo oscuro e denso di ricordi dal sapore dolciastro. Un immenso
contenitore predisposto per la carcerazione quotidiana di un manipolo di
sacrificati. "I padroni io non li ho mai visti in faccia. Per loro eravamo
delle marionette. Entravi e uscivi dal tuo reparto e basta, di quello che
succedeva lì vicino non dovevi interessarti." Un confine dentro l'altro.
Prima i grandi cancelli che ti fagocitavano la mattina, prestissimo, quando
iniziava il turno; poi il reparto. Poi di nuovo i cancelli per ricondurti a
casa, nel sobborgo spettrale dentro al quale recitare la tua piccola parte di
consumatore, debitore, affittuario, completava il cerchio ossessivo dei confini
mai oltrepassati, quello verso una vita più decente, quello verso un
lavoro meno avvilente, quello verso una società veramente libera. La
fabbrica era davvero il limite della storia individuale e collettiva.
Liberarla, liberarsene è rimasto semplicemente l'artificio retorico di
un gruppo compatto di dirigenti di partito, non occorre dire quale, poco
inclini alle battaglie politiche che non legittimassero, in una sorta di
orrenda strategia a ciclo continuo, la fabbrica stessa come luogo della
spartizione di quote di potere istituzionale, piccoli brandelli di un oscuro
governare. Persino quando la macchina dell'economia capitalista ha spostato
fuori dalla fabbrica i centri di rigenerazione della sua meccanica produttiva,
è stato più semplice far finta che nulla potesse, anche
lontanamente, turbare la lotta di classe incastrata a viva forza dietro a quei
cancelli.
Così, oltre il confine che separa la città dal perimetro dello
stabilimento, fumi insidiosi e gas letali, che potevano valicare qualsiasi
limite imposto nella loro inafferrabilità, hanno pian piano occupato gli
spazi del quotidiano. Del quotidiano di tutti, anche di quelli che non erano in
fabbrica. Nemmeno lo spopolamento progressivo dello spazio un tempo riservato
alla feroce produzione industriale degli anni che vanno dal '50 all''80 ci ha
salvati dalla contaminazione. Una colossale, efficientissima, sottrazione di
salute pubblica ed accaparramento di profitto. A ridosso di tutto questo, una
sapiente cultura scientifica, tutta dedita alla magnifiche sorti e progressive
del sistema capitalistico, oggi si direbbe del mercato globale, per quanto i
due concetti restino forse inassimilabili, oscurava la verità, e le
verità, su CVM e PVC declamando la straordinaria duttilità del
materiale con il quale nel frattempo si costruiva un'epoca intera: la plastica.
Un altro, grande confine dell'industria dell'omologazione. Produrre plastica
diventò presto l'affare del secolo. Tutt'intorno alla fabbrica
proliferavano i gangli più o meno occulti di un potere/sapere che finiva
per condizionare la società stessa. E più i profitti aumentavano,
più le cautele diminuivano: milioni di tonnellate di sostanze inquinanti
di cui si è impregnata perfino la terra. Ecocidio dell'ambiente
lagunare, ha scritto qualcuno; nella requisitoria di Felice Casson, giudice in
Venezia, presentata nell'aula bunker del Tribunale di Mestre la scorsa
settimana, questi elementi e il racconto della sistematica violazione di cose e
persone ricorrono pesantemente. Pagine fitte di una storia d'Italia che
è anche storia di compromessi tra medicina e capitale, tra aziende e
politica, tra industria e malaffare.
Storie di fabbriche e di morti da lavoro. Storie di disastri ambientali.
L'ultimo confine, il limen invalicabile, quello tra verità e memoria,
è una sottile linea che segna pieghe pericolose, indugia su territori
sconosciuti ed esplode nella violenza del dolore.
L'indagine di Casson, minuziosa e perentoria, sta dimostrando perfino come da
quasi un secolo CVM e PVC siano sostanze tossiche e cancerogene, come
l'economia del Novecento abbia costruito la propria ragion d'essere e di
resistere sul più completo travalicamento del genere umano in funzione
della propria autoriproducibilità. Oltre il confine del corpo, appunto.
"Vorrei una giustizia per i morti e per i malati. Non so se verrà fuori"
ha detto Alberto Pettenò, operaio in Marghera, marchiato dalla fabbrica
con un enfisema polmonare. Neanch'io so se verrà fuori, ma ci spero
tanto.
Mario Coglitore
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