![]() Da "Umanità Nova" n.21 del 10 giugno 2001 La parata degli assassiniVenerdì scorso un tale, al mercato dietro casa, sostenne che il 2 giugno "era la festa degli italiani". In sostanza espresse in modo semplice ma immediato il concetto che sancisce il connubio tra identità nazionale e forma di governo dello stato-nazione. La "Festa della Repubblica" come festa degli italiani rappresentava per lui lo spazio simbolico nel quale veniva raffigurato il nazionalismo nostrano, luogo di celebrazione collettiva in cui i tanti singoli - e le loro innumeri differenze, non ultime quelle sociali - scompaiono per dar spazio ad un unicum indistinto, tanto indistinto che la sua caratteristica precipua è il definirsi non per inclusione ma per esclusione. Esclusione, ovviamente, dei non-italiani, degli stranieri: quelli che vivono oltre i confini del territorio sul quale lo Stato-nazione esercita il proprio dominio e gli altri, i tanti che pur vivendo accanto a noi, lavorando nelle stesse fabbriche, frequentando le medesime scuole, bar, parchi pubblici, mercati non godono dei diritti connessi all'essere italiani. L'identità nazionale si ripropone quindi nuovamente come il terreno dove l'affermazione di se passa per la negazione dell'altro. Segno inequivocabile di ciò la scelta compiuta lo scorso anno dal presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi di riproporre come fulcro delle celebrazioni del 2 giugno la parata militare, abbandonata ormai da 25 anni. La parata di quest'anno, significativamente svoltasi a cavallo tra un governo e l'altro nel segno di una continuità di fondo tra il centro-sinistra ed il centro-destra è stata il trionfo del militarismo. Si sono visti soldati ed armi sfilare di fronte alle autorità dello Stato e non sono mancate neppure le truppe Nato, quale emblema di un internazionalismo del terrore e deferente omaggio a chi, dal '45, non ha mai abbandonato il Belpaese. Dulcis in fundo le soldate, per dimostrare che il mestiere di assassini di Stato non è più mero appannaggio degli uomini. Il nazionalismo nostrano si mostra nel suo volto più autentico, quello incarnato da un esercito pronto a combattere, ad uccidere, magari in nome dell'umanità. Come in Iraq, in Somalia, in Bosnia, in Kosovo, in Serbia, i più recenti "teatri d'azione" delle forze armate italiane. E si sente nuovamente parlare di patria, un termine che pareva ormai desueto, assopito nei luoghi di una memoria lontana, estranea alle coscienze dei più, una parola seppellita nel ciarpame della storia. Una parola che ci riporta ad un'identità della terra e del sangue - scanditi rigorosamente al maschile - che non può che farci rabbrividire. In questo 2 giugno degli stendardi e delle baionette lo sguardo non può che rivolgersi al vicino oriente, dove gli opposti e speculari nazionalismi palestinese ed israeliano stanno celebrando i trionfi dell'orrore, tra quotidiane stragi di ragazzi e bambini, nel dolore, anche questo del tutto simile, delle famiglie spezzate dalla furia e dall'odio. Furia ed odio che erigono una frontiera invalicabile ed infrangibile in una terra che solo le follie del nazionalismo e della religione possono volere divisa o, peggio, etnicamente "ripulita". In questo primo scorcio di secolo anche nel cuore dell'Europa vediamo rispuntare i fantasmi del nazionalismo più becero, della patria e del suolo, che vengono resuscitati ed attualizzati per dare man forte nel costruire a forza una globalizzazione che apre i mercati e chiude le frontiere. Ai migranti viene così riservato il rango di merci tra le altre, che possono passare a condizione che non aspirino a divenire "cittadini". Per chi dissente, per chi vuole manifestare la propria opposizione le frontiere si chiudono, presidiate da uomini in armi. Nel mercato globale, quello che trasforma in merci persino le cellule del nostro corpo, che mette all'asta beni e servizi, che riduce la salute, l'istruzione, l'accesso all'acqua ad una questione di portafoglio occorrono uomini armati di tutto punto ma anche solide barriere ideologiche tra il mondo dei vincitori e quello dei vinti. Tra gli italiani ed i non-italiani, tra gli europei e gli extracomunitari. L'esercito italiano, con il consenso di tutte le forze politiche, si prepara a svolgere un ruolo di punta nella "Caserma Europa", destinata ad affiancare ed irrobustire la "Fortezza Europa" inaugurata dai trattati di Maastricht e Schengen. Nel nuovo esercito europeo il contributo dell'Italia è di tutto rispetto sia in uomini, dove è seconda solo alla Francia con 19.800 effettivi, sia in mezzi con 47 velivoli dell'Aeronautica e 19 navi (inclusa la portaerei Garibaldi), un reggimento di Fanti di Marina e 22 aerei ed elicotteri. In tutta Europa enormi sono gli stanziamenti di soldi pubblici destinati al rafforzamento dell'apparato repressivo sul piano interno ed esterno. Italia, Francia, Germania e Inghilterra spendono intorno ai 200.000 miliardi di lire per armamenti ed esercito; il totale dei 15 paesi dell'UE dovrebbe toccare i 400.000 miliardi secondo le previsioni di spesa delle leggi finanziarie del 2001. Lo scorso anno in Italia il governo di sinistra ha stornato fondi dal budget dell'edilizia ospedaliera per finanziare l'Eurofighter Typhoon, il supercaccia europeo. Nel solo settore dei caccia militari le valutazioni più caute ritengono che entro il 2010 tra i 136 e i 200 miliardi di dollari verranno destinati a livello mondiale ad aggiornare gli stormi da intercettazione. La finanziaria italiana del 2000 contemplava già un significativo aumento delle spese militari allo scopo dichiarato di "produrre sicurezza" e, dei 32.839 miliardi del bilancio per lo scorso anno, ben 5.338 erano dedicati all'acquisto di nuove armi. Tale spesa era considerata comunque ancora insufficiente rispetto ad un "fabbisogno" dichiarato di 9.000 miliardi annui per cui la finanziaria del 2001 ha incrementato ulteriormente il bilancio di previsione per la difesa attestandosi a quota 34.235 miliardi, una quota che quasi sicuramente verrà sforata per far fronte ai numerosi impegni assunti dal governo Amato per l'ammodernamento del proprio arsenale bellico. Un solo esempio: la gigantesca portaerei commissionata alla Fincantieri che dovrebbe divenire la nuova ammiraglia della Marina militare italiana il cui costo, secondo quanto riportato lo scorso autunno da "Il Sole 24 ore", dovrebbe aggirarsi intorno ai 2.300 miliardi entro il 2006, liretta più, liretta meno. Costruire il consenso intorno a queste scelte comporta una gigantesca operazione di promozione dell'apparato bellico nostrano che non può più essere affidata soltanto al pietismo catto-comunista della "guerra umanitaria" ma richiama inevitabilmente al recupero delle nozioni di nazione e di patria. Di fronte alla parata degli assassini di stato, occorre ricordare che la strada degli uomini e delle donne verso la libertà non è attraversata da confini, straziata da nazionalismi, infangata dalla guerra, vilipesa dalle divise perché nel mondo che vogliamo nessuno può essere ridotto a merce o carne da cannone, nessun luogo è un fortilizio da difendere o conquistare. Qui come in Palestina, la terra è un luogo da abitare. Senza padroni, senza eserciti, senza patria. Maria Matteo
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