unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.21 del 10 giugno 2001

Libertà di stampa?
Vietato anche citare

La libertà di stampa, lo sappiamo, è spesso solo una espressione rituale dietro la quale si può nascondere di tutto. Dai cronisti che ricopiano fedelmente le veline dei potenti a quelli che provano a pensare con la propria testa, dai provvedimenti legislativi che colpiscono economicamente le piccole testate ai miliardi regalati a giornali che esistono solo nel mondo dei sogni.

La scorsa settimana la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza nella quale viene ribadito il principio, già noto anche se non sempre applicato, secondo il quale commette reato di diffamazione non solo la persona che rilascia determinate dichiarazioni ma pure il cronista che le riporta, anche "virgolettate", sul proprio giornale. Uniche eccezioni a questa regola riguardano i soggetti che "funzionalmente" sono competenti a rilasciare una particolare informazione ed i casi nei quali prevalga l'interesse pubblico. Ovviamente, in questi casi, sarà compito dei giudici decidere, volta per volta, in merito.

La sentenza della Corte non sarebbe particolarmente preoccupante se non si inserisse in un contesto nel quale la libertà di stampa e di comunicazione è ancora fondamentalmente un privilegio per pochi, dove le interviste "in ginocchio", vale a dire quelle spudoratamente favorevoli all'intervistato, restano uno degli esercizi preferiti da chi produce disinformazione. In un paese dove la maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa sono monopolio di due tre gruppi economico-politici, dove la stampa indipendente è una sparuta pattuglia sempre in lotta con bilanci in rosso e rischi di chiusura imminente.

La "diffamazione a mezzo stampa" è stato sempre un reato d'opinione usato principalmente dai potenti, a loro discrezione, come dimostrano anche casi recenti, per esempio quello di D'Alema contro Forattini, e come confermato dal fatto che difficilmente una persona qualsiasi riuscirebbe a farsi risarcire un danno dalla pubblicazione di notizie diffamatorie sul suo conto, basta vedere come vengono trattati coloro che per un giorno salgono - loro malgrado ed innocenti - agli onori della cronaca.

Un ulteriore esempio di questa situazione è dato dalla recente denuncia presentata da Giulio Caradonna (già parlamentare del M.S.I.) nei confronti del Centro Sociale "La Strada" di Roma e del sito di "Isole nella Rete" in quanto colpevoli il primo di aver prodotto e il secondo di aver pubblicato su Internet un dossier sulla storia della destra italiana nel quale viene ricordato il passato da picchiatore fascista dell'esponente politico.

Il nome di Caradonna è ben noto e non solo a Roma, soprattutto ai meno giovani, e le sue attività negli anni 60-70 sono state riportate dalle cronache dei giornali di quegli anni e ricordate successivamente in diverse pubblicazioni. Eppure, la richiesta di risarcimento milionario parte, quando si dice il caso, solo poche ore dopo la vittoria del centro-destra alle recenti elezioni, nonostante il presunto reato risalga, secondo l'accusa, almeno al 1996. Il sospetto di strumentalità di una denuncia del genere è rinforzato dal fatto che gli avvocati del querelante rivendicano per il loro assistito il "diritto all'oblio", vale a dire il principio secondo il quale seppure i fatti ricordati fossero veri è passato tanto di quel tempo per cui ripubblicarli oggi sarebbe "lesivo dei diritti della persona".

In un sistema basato sul profitto la cosiddetta libertà di informazione si riduce, alla fine, alla differenza fra chi può permettersi il lusso di pagare risarcimenti milionari e chi, anche se forte della verità, non può permetterselo.

Ma, in fin dei conti, non bisognerebbe lasciarsi coinvolgere più del dovuto da questi avvenimenti ma piuttosto interpretarli come dei segnali che ci confermano da una parte il ruolo sempre più importante assunto dai mezzi di comunicazione di massa nella società e dall'altra la necessità, anche in questo campo, di violare senza timore le regole poste da sempre a difesa dei privilegi di pochi.

Pepsy



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