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Da "Umanità Nova" n.21 del 10 giugno 2001

Le cento braccia
Ma la globalizzazione è affare di donne?

A volte questa parola ci è sembrata vuota, un termine che rappresenta trasformazioni immense ma non realmente collegate con la vita di tutti i giorni.

Invece basta riflettere un attimo per accorgersi che le più colpite siamo proprio noi donne, sia nel nord sia nel sud del mondo anche se con modalità ed effetti diversi.

Da sempre le donne sono state le meno garantite nelle fabbriche e negli uffici perché il loro salario veniva considerato come una integrazione del reddito familiare, un "di più" di cui si poteva fare a meno. Se a questo aggiungiamo il periodico ritiro dal mondo del lavoro delle donne impegnate in attività di cura familiare o per gravidanze abbiamo un quadro completo di un lavoro considerato spesso un "non lavoro".

La manodopera femminile è spesso utilizzata in lavori più flessibili, più ricattabili e precari. Questa adattabilità forzata della donna è estremamente funzionale ai processi ristrutturazione che sono in atto oggi. Non a caso in Europa il 78% delle occupazioni part-time sono fatte da donne, con la punta del 90% in Germania. L'eliminazione di alcuni aiuti forniti da quello che solitamente veniva definito "stato sociale" ha reso le donne più disponibili a cercare impieghi che conciliassero impegni lavorativi e familiari senza troppo badare alle condizioni in cui si è costrette a lavorare. Solo in Italia nel 2000 gli incidenti che hanno coinvolto donne sui luoghi di lavoro sono stati 233 mila e ben tre milioni tra le mura domestiche (parliamo delle cifre denunciate, sempre molto inferiori a quelle reali).

Contemporaneamente si continua a rafforzare un modello ideologico di famiglia che credevamo definitivamente battuto: la famiglia come luogo di difesa dell'ordine, della stabilità, sostenuta da politiche di sostegno fiscale, economico e sociale che selettivamente legate alla famiglia "tradizionale" la vorrebbero vendere come un rifugio "comodo e sicuro".

Un rifugio che fa da cemento ideologico con cui costruire un piedistallo su cui innalzare le donne per inchiodarle ancora una volta a ruoli di sostegno e subordinazione. Completamente rimossa e combattuta è l'idea di famiglia come luogo di solitudine femminile, luogo in cui vengono commessi il maggior numero di violenze fisiche e morali.

La donna viene di nuovo presentata come la dea della casa: la dea Kaly dalle cento braccia, disponibili ad occuparsi di tutto a basso costo e con flessibilità totale.

Se questo avviene da noi, nel sud del mondo non se la passano certo meglio.

In quei paesi il capitalismo si comporta come lo avevano conosciuto le nostre bisnonne centinaia di anni fa, sfruttamento totale e completo e brutale dei corpi femminili resi disponibili a qualunque lavoro pur di far fronte all'impoverimento dilagante.

Nel sud est asiatico, nel corso di vent'anni, dal 1970 al 1990, l'occupazione femminile è salita al 44% (era ferma al 25%), la maggior parte dei nuovi posti di lavoro creati sono occupati da donne, specialmente nei settori più precarizzati e con minori difese sindacali.

Se a questo aggiungiamo la spoliazione ambientale creata in questi anni che ha costretto le donne ad un aumento gravosissimo del lavoro domestico possiamo solo cominciare ad immaginare in quali condizioni vivano le donne. Un solo esempio può essere illuminante: in Africa la maggior parte dei lavori agricoli sono svolti da donne ed è loro compito tutti i giorni percorrere i chilometri necessari per cercare l'acqua, bene sempre più introvabile.

Secondo cifre fornite dal Women's global strike "le donne ed i ragazzi svolgono due terzi del lavoro mondiale in cambio del 5% del reddito. Ben il 70% di loro non è salariato ma lavora in nero." Ricordiamo inoltre la politica abortiva selettiva adottata in molti paesi asiatici. In molti paesi essere donne significa rischiare la vita. Fra Asia Meridionale, Nord Africa, Medio Oriente e Cina sono 100 milioni le bambine che "sono scomparse", cioè che in base al numero medio di ripartizione donne/uomini dovrebbero esserci. Sostanzialmente nei primi anni di vita muoiono moltissime bambine più che maschi perché più malnutrite, ricevono meno cure (in Pakistan uno studio degli anni 90 rilevava che il 71% dei bambini sotto i due anni ricoverati erano maschi), oppure addirittura vengono "abortite" prima della nascita quando si viene a conoscenza del loro sesso.

Nonostante tutto mi piace sostenere che "donna è bello", ma in questi tempi bui sarà sempre più importante fare in modo che queste parole non siano solo uno slogan.

Rosaria Polita



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