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Da "Umanità Nova" n.22 del 17 giugno 2001
L'autunno del macellaio
Riflessioni intorno all'incriminazione di Pinochet
Non c'è che dire, ogni tanto anche la lettura
della "stampa borghese" può dare qualche soddisfazione!
Leggo su Il Corriere della Sera del 29 maggio 2001: "L'imputato
Pinochet, su cui pendono oltre 260 denunce per gli omicidi e le violenze
perpetrati durante il regime seguito al golpe del '73, dovrà essere
FOTOGRAFATO DI FRONTE E DI PROFILO E DOVRA' FARSI PRENDERE LE IMPRONTE DIGITALI".
Sono passati 28 anni da quelle terribili giornate della primavera del 1973, e
penso (e spero) che molti dei lettori di questo giornale non ne abbiano, per
motivi anagrafici, un ricordo diretto. Cercherò, in pochissime righe, di
supplire a questa carenza. In Cile, in un continente infestato da regimi
ultraconservatori o fascisti, si era creata l'insopportabile anomalia (per il
potentissimo regime nordamericano) di un governo che, comunque lo si volesse
giudicare, cercava di sfuggire alle regole autocratiche e dittatoriali tipiche
del continente: il governo di Unidad Popular formato da una coalizione di
centro sinistra e retto dal socialista Salvador Allende. In breve tempo,
nonostante gli errori anche macroscopici che commise, l'esperimento cileno
cominciò ad essere un elemento trainante per tutte le lotte popolari del
subcontinente. Anche se i settori della sinistra rivoluzionaria stigmatizzavano
puntualmente le debolezze della neonata democrazia cilena (e tra questi non
mancava lo schieramento libertario) non sfuggiva comunque a nessuno
l'importanza che questo timido esperimento progressista aveva per le lotte di
liberazione di tutto il mondo. E sicuramente non sfuggiva neppure all'amiko
amerikano (e scusate le kappa ma quando ci vogliono ci vogliono).
In pochi mesi, con l'aiuto dei dollari e dei "consiglieri" statunitensi, la
destra cilena riuscì ad aggravare alcune delle contraddizioni della
coalizione governativa per arrivare, al termine di una grave crisi che aveva
messo in ginocchio l'economia del paese, all'attuazione di un golpe militare di
una ferocia primitiva. Con il pieno appoggio di un esercito senza "onore" ma
educato alla disciplina prussiana, il generale Pinochet distrusse il governo ed
ogni speranza di libertà. La repressione nei confronti della sinistra,
riformista o rivoluzionaria che fosse, fu condotta con una determinazione
esemplare, paragonabile, forse, solo a quella con la quale il generalissimo
Franco distrusse nel sangue e nell'omicidio un'intera generazione di libertari
e progressisti spagnoli. Cento anni di storia del comunismo hanno consentito ad
alcuni "storici" di riempire un volume sui suoi crimini. Basterebbero i pochi
giorni che seguirono al golpe di Pinochet per compilare vari tomi sui crimini
del capitalismo.
Per quelli della mia generazione, che dal golpe cileno ricevettero un pesante
pugno allo stomaco, ma per i quali gli avvenimenti sudamericani furono anche
uno stimolo in più per lottare nel proprio paese, la notizia che
riportavo all'inizio non può ridursi al dato di fatto o alla notazione
di cronaca, ma viene ad assumere una carica simbolica del tutto particolare. E
anche essere fonte di alcune riflessioni.
Quando Pinochet assunse il potere dopo aver assassinato Allende e parecchie
migliaia di oppositori, per tutta la sinistra mondiale questo fu sentito come
una dolorosissima sconfitta che avrebbe pesato, e non poco, sulle proprie
strategie. Ad esempio c'è chi fa risalire, e credo a ragione, agli
insegnamenti cileni la teoria berlingueriana del "compromesso storico", che
prevedeva una alleanza strategica fra forze politiche di larga base popolare,
fino a quel momento schierate su fronti contrapposti. Alleanza naturalmente
tesa, nella sua ampiezza, a neutralizzare sul nascere ogni tentazione golpista
a casa nostra. Anche la sinistra rivoluzionaria si pose allora nuovi
interrogativi e trovò nuove risposte su concetti fondamentali quali
democrazia, partecipazione e riformismo.
Ma la lezione cilena non fu solo riflessione teorica. Fu anche l'affermarsi
prepotente di sentimenti e sensazioni, fu la percezione dell'indecenza di
quella ingiustizia, di un'ingiustizia alla quale nessun atto della storia
avrebbe potuto porre riparo. I crimini del regime cileno erano talmente
efferati, e talmente "straordinari", agli occhi di una generazione di giovani
che non aveva conosciuto direttamente gli orrori dei fascismi e della guerra,
che divennero il paradigma, la cartina di tornasole del livello di crudele
inciviltà che poteva raggiungere un potere "chiamato da Dio a riportare
l'ordine". E quindi anche uno dei luoghi simbolici del bisogno esistenziale di
giustizia che sente chiunque abbia a cuore il rispetto della dignità e
della libertà dell'individuo.
Col passare degli anni e il legittimarsi agli occhi del mondo del regime
cileno, sembrava sempre più impossibile che la nemesi potesse colpire il
vecchio macellaio in ciò che più gli era caro: l'orgoglio e la
considerazione di se stesso. Oltre a tutto in quel tormentato continente,
sull'onda dell'esempio cileno, si affermeranno altre sanguinarie dittature, che
in maniera meno clamorosa ma altrettanto efficace distruggeranno nel sangue e
nell'omicidio il desiderio di libertà di interi popoli. La civilissima
Argentina, il prospero Uruguay sono solo alcuni dei teatri nei quali il potere
economico, religioso e militare fecero compagnia per portare sulle scene le
loro immonde danze macabre.
E ovunque le dittature si estinsero non perché moti popolari ne
imponessero la fine, ma perché il mutare delle condizioni sociali e
degli scenari internazionali consigliavano a questi regimi di cambiare
semplicemente la maschera. Lasciando dietro di se, comunque, strascichi
vergognosi resi possibili dal diffuso senso di impunità che continua a
proteggere i vecchi carnefici. Ne è un esempio, drammatico e
incredibile, quanto è successo in questi giorni alla superstite figlia
di Ebe Bonafini, la coraggiosa madre de Plaza de Majo, che da decenni
cerca di impedire, assieme ad altre madri come lei, che svanisca il ricordo
delle infamie della dittatura argentina. Aggredita in casa da un commando di
sicari del passato (e presente) regime, la figlia di Ebe ha rivissuto ancora
oggi, a tanti anni di distanza e nel pieno di un regime che vuole essere
democratico, le stesse violenze e torture con le quali furono distrutte
generazioni di compagne e compagni.
Ecco perché resta necessaria una attenzione costante e una ferma
determinazione a lottare con tutte le nostre forze contro questo stato di cose:
perché la spada del giudice, se anche arriva, arriva sempre troppo
tardi, quando non si può cambiare, e fermare, più niente. Quando
non si può impedire che le cose accadano e si trasformino in tragedie.
Solo la mobilitazione e la lotta di chi ama la libertà, di chi intende
difendere la dignità degli individui e dei popoli, possono impedire in
concreto i mille golpe che i poteri criminali, globali, multinazionali o locali
che siano, tramano contro di noi e contro i nostri diritti.
Quanto detto comunque nulla toglie al senso di intima soddisfazione personale
che prova chi non ha dimenticato i giorni della mattanza. Immaginarsi quel
vecchio macellaio, già umiliato dalla lunga (anche se dorata) prigionia
britannica, costretto ora, come un qualsiasi ladruncolo, a sottoporsi alla
degradante procedura delle impronte digitali e delle foto segnaletiche, non
potrà certo ripagarci del dolore e dell'odio che ci presero in quel
lontano 1973 ma perlomeno ci permetterà di credere che esiste una
giustizia al mondo. Non quella con la G maiuscola, anche se tutto questo
è dovuto principalmente all'ostinazione di un giudice spagnolo, ma la
giustizia della storia, quella che riporta gli avvenimenti e i loro
protagonisti nella dimensione che gli compete, ossia che Pinochet è un
delinquente della peggiore specie e che come tale lo si ricorderà,
fotografato di profilo e di fronte e con le mani sporche, oltre che del sangue
dei suoi migliori connazionali, anche dell'inchiostro di un commissariato di
polizia.
Come un grottesco protagonista dei romanzi di Garcia Marquez, questo patriarca
vive il suo miserabile autunno nell'onta e nella vergogna.
Massimo Ortalli
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