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Da "Umanità Nova" n.24 del 1 luglio 2001

30 giugno 1960
La rivolta di Genova

Il 30 giugno è per Genova una data di grande contenuto simbolico: è il giorno della rivolta popolare antifascista contro il governo Tambroni nella cui maggioranza di governo erano entrati, per la prima volta dopo la fine della guerra i fascisti del Movimento Sociale. Il 30 giugno di quest'anno, i neofascisti di Forza Nuova hanno convocato a Genova una manifestazione: i portuali hanno proclamato sciopero ed indetto una manifestazione, decisi ad impedire la provocazione.

Pubblichiamo una ricostruzione storica, politica e personale della rivolta di quarant'anni orsono.

I ricordi sono sbiaditi. Avevo 14 anni e a quella età, allora, si viveva ancora quasi solo di giochi. Ricordo una grande emozione vissuta soprattutto di riflesso nella rabbia e nell'eccitazione degli adulti. L'antifascismo, in quegli anni, era un vero e proprio sentimento popolare, largamente diffuso tra i proletari, ma - in quanto sentimento - inanalizzabile. Un'opposizione netta, un rigetto totale del fascismo che non ammetteva sfumature, distinguo, né tantomeno tentativi di analisi.

Ma torniamo ai fatti. Sul filo di una memoria personale un po' incerta e di una discreta base documentale, l'evolversi degli avvenimenti si può ricostruire cosi':

Italia fine anni '50. Dopo la ricostruzione dell'immediato dopoguerra, il decollo economico accelerato (il boom si diceva) e gli inevitabili ritardi sul piano della rappresentazione politica dei nuovi equilibri nel corpo sociale. La DC - partito interclassista per eccellenza e quindi pienamente titolato alla gestione del compromesso sociale - è nella piena maturità dell'esercizio del potere. Il PCI, alle corde dal '48, pur esercitando ancora un controllo ferreo sulla classe operaia (anche tramite la CGIL) non è in grado di tradurre in soldoni questa egemonia: le vie del compromesso tra capitale e lavoro passano, per ora, altrove. Tuttavia in questo meccanismo qualcosa scricchiola. Il ritardo della società rispetto all'economia è sempre più tangibile. La DC con il suo piccolo codazzo di partiti alleati fatica a contenere le spinte ad un "ammodernamento" della società. Le lotte operaie dal canto loro proseguono anche con pesanti strascichi di scontri di piazza con i celerini di Scelba. C'è da cambiare qualcosa nel meccanismo di governo: allargare la maggioranza parlamentare ad un partito moderato di sinistra come il PSI può gettare le basi di un nuovo patto sociale. A questa svolta tuttavia ci sono forti resistenze da parte di vasti settori del padronato e della borghesia.

Dopo l'ennesima crisi di governo, il 20 maggio 1960, Giovanni Tambroni diventa Presidente del Consiglio e forma un governo (osteggiato da parte della stessa DC) che si avvale dell'appoggio determinante del MSI. I sei mesi del governo Tambroni saranno pesantissimi. Viene rafforzato l'apparato repressivo dello Stato in funzione antioperaia e di controllo sociale. Il vecchio sistema di potere rifiuta ottusamente quelle inevitabili correzioni di rotta che in seguito renderanno possibili altri trent'anni di governo DC e sciorina il peggio del suo repertorio.

In questo contesto si situano gli avvenimenti genovesi del giugno '60.

A metà maggio il MSI annuncia che terrà il suo congresso a Genova. Si tratta di una grossa provocazione, tanto più che fra i gerarchi di quel partito c'è l'ex prefetto repubblichino Basile, responsabile della deportazione di tantissimi lavoratori in Germania. All'inizio la città non risponde: tanti altri problemi economici e sociali concentrano l'attenzione dei lavoratori genovesi. Primo fra tutti la perdita di posti di lavoro determinata da una ristrutturazione industriale che penalizza l'industria di Stato, cardine dell'economia genovese. Presto però l'attenzione cresce: da un lato, per il PCI, c'è la possibilità di giocare la carta della mobilitazione popolare per rientrare nel consesso politico delle parti sociali; dall'altro, per i lavoratori, cresce la consapevolezza che una sfida (che ha in palio anche e soprattutto le loro condizioni di vita e di lavoro) è stata lanciata e non si può non raccoglierla; dall'altro ancora c'è quel sentimento antifascista diffuso e condiviso di cui parlavo prima. Si arriva così, in un crescendo di tensione e di mobilitazioni, al 30 giugno, a pochi giorni dal previsto congresso missino. Alle tre del pomeriggio un corteo di oltre 100.000 persone (in massima parte lavoratori e proletari, provenienti in gran parte dai quartieri proletari del Ponente) percorre le vie della città (1). Finito il comizio, tenuto in piazza della Vittoria, la gran parte dei manifestanti torna indietro, verso piazza De Ferrari. Lì partono violentissime le prime cariche della polizia. I manifestanti rispondono e iniziano durissimi scontri che dureranno ore. Molti dei dimostranti sono giovani (le famose "magliette a strisce"), studenti, operai o figli di operai che di lotte, scontri, fascismo e antifascismo sanno poco, ma che proprio per questo sono la spia di una società e di una classe operaia che stanno profondamente cambiando (2) dal punto di vista politico, ma anche da quello culturale. La situazione comunque sembra precipitare, la polizia è incalzata e costretta ad arretrare. Intervengono a questo punto le mediazioni dei dirigenti del PCI e dell'ANPI: si è andati troppo in là, è il momento di trasformare in risultati sul piano politico quanto accaduto.

Gli scontri cessano. Il congresso del MSI viene annullato. Ci sarà poi sul piano nazionale un luglio pesantissimo: morti, feriti, arrestati (Reggio Emilia valga per tutto). In ogni caso il governo Tambroni cadrà e si spalancherà la strada ai futuri governi di centro-sinistra. Ancora un ricordo personale: 30 giugno 1961, vedo passare un corteo di nemmeno mille persone. Era la commemorazione ufficiale dei fatti dell'anno prima.

Questa la sintetica esposizione dei fatti e del contesto. Rimane lo spazio per un paio di riflessioni:

Il fascismo nella cultura media della sinistra nel dopoguerra è sempre stato un buco nero, una aberrazione della storia, il simulacro di un dispotismo del quale mal si conoscono le radici materiali. L'antifascismo, di conseguenza, ha potuto raccogliere tutto il ciarpame possibile: la difesa della democrazia, il ripristino della legalità, l'unità della nazione, ecc., il tutto abbondantemente intriso di retorica patriottarda. Sino a che non si riuscirà ad analizzare il fascismo nella sua natura di specifico apparato di dominio della borghesia - peculiare ma strettamente collegato alle necessità di una certa fase di sviluppo capitalistico - non sarà possibile ricostruire un antifascismo di classe. E allora il fenomeno di proletari e sottoproletari che vanno a ingrossare le fila di formazioni neo-fasciste vecchie e nuove sarà, come sempre, incomprensibile ed estremamente difficile da combattere. Nella migliore delle ipotesi continueremo a coltivare quel sentimento di cui parlavo all'inizio.

Movimenti e lotte come quelli del 30 giugno 1960 sono, alla luce di una fredda analisi delle possibilità, estremamente difficili da prevedere. Le tensioni sotterranee del corpo sociale possono esplodere in qualsiasi momento. L'occasione è spesso ininfluente rispetto ai contenuti. Il 30 giugno, sotto la facciata di una mobilitazione antifascista di massa, è in realtà il prodromo di grandi movimenti di lotta che alla fine degli anni '60 scuoteranno una società fortemente in ritardo rispetto ai ritmi dello sviluppo economico e della ricchezza prodotta. La spontaneità di questi movimenti costituisce il loro punto di debolezza e il loro punto di forza. Debolezza perché facilmente disorientabili ed esposti al recupero da parte degli apparati della sinistra istituzionale. Forza perché dall'erompere di contraddizioni può nascere di tutto, coscienza, consapevolezza della propria forza, o anche più semplicemente un sentire condiviso che lottare è ancora possibile, che la partita non è mai chiusa.

Vargo

Note:

Per i fatti del 30 giugno genovese è importante la vivida descrizione che ne da Cesare Bermani (Il nemico interno, Ed. Odradek, Roma 1997, p.168-180), specialmente per quanto riguarda il ruolo di molti ex partigiani, che, nel momento culminante degli scontri si presentarono in piazza armati a scopo dissuasivo nei confronti della violenza poliziesca. Di questo episodio, ovviamente, non c'è traccia nelle rievocazioni "ufficiali" che ANPI e PCI hanno più volte fatto.

Su questi aspetti consiglio l'articolo di Diego Giachetti, "Di nuovo a Reggio Emilia / Di nuovo la' in Sicilia", in Collegamenti Wobbly n.10-11, 2000-2001



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