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Da "Umanità Nova" n.32 del 23 settembre 2001

Mercato azionario in picchiata
Borse da schianto

L'attacco terroristico alle torri gemelle ed al Pentagono ha infranto anche il fragile equilibrio che reggeva le borse mondiali. Dopo sette giorni di caduta lenta ed inarrestabile, alle 15.12 dell'11 settembre compariva sugli schermi dei monitor europei la prima notizia confermata che si trattava di un attacco terroristico. Le borse che fino a quel momento avevano provato a realizzare un piccolo rimbalzo, hanno virato in picchiata e sono andate a schiantarsi, mediamente, a -8%. Dopo tre giorni, venerdì 14 settembre, il copione si è ripetuto, come reazione all'appello alle armi dei talebani contro il nemico americano: -6%. Il bilancio è pesantissimo: solo il primo giorno sono stati bruciati 800 mila miliardi di capitalizzazione di borsa, il secondo giorno altri 600 mila. Complessivamente è una cifra che rappresenta quasi la metà dell'intero debito pubblico italiano, qualcosa come il 60% del PIL annuo di un paese come il nostro. E va ricordato che i mercati azionari americani non hanno ancora riaperto...

Ma il crollo delle azioni in questo settembre nero segue 18 mesi di grande sofferenza, in cui è stato pienamente compiuto lo sgonfiamento della bolla speculativa degli anni '90 e forse anche qualcosa di più. Mentre ha tenuto l'indice Dow Jones dei 30 principali titoli azionari americani (in gran parte titoli ciclici della old economy), il bilancio è pesantissimo per il Nasdaq (-60%) e anche per gli indici europei e giapponesi (da -35% a -50%). Lo scenario per il prossimo futuro è quanto mai incerto e la destabilizzazione finanziaria è forse l'effetto lungo più grave che gli attentati potessero provocare.

Abbiamo più volte descritto le caratteristiche del favorevole ciclo borsistico americano degli anni '90, che si possono qui riassumere brevemente:

un lungo periodo di espansione economica degli States, durato otto anni, guidato da un'amministrazione clintoniana attenta alla crescita e controllato da un Congresso repubblicano attento ai deficit di bilancio;

una politica monetaria espansiva ed accomodante, che ha privilegiato il sostegno allo sviluppo piuttosto che il controllo dell'inflazione;

una domanda per consumi privati molto elevata che ha portato gli americani ai minimi storici in termini di risparmio delle famiglie, con i capital gain che finanziavano gli acquisti immediati e la sicurezza previdenziale futura;

la forte tenuta degli investimenti aziendali, che ha portato ad una continua innovazione delle infrastrutture tecnologiche, nel quadro di un forza lavoro altamente flessibile.

La "tirata" dell'economia americana ha assorbito una quota crescente di export europeo e asiatico, permettendo ai paesi dell'Ume di crescere a rimorchio, correggendo almeno in parte il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, e ai paesi dell'Estremo Oriente di realizzare fino al 1997-98 tassi di crescita molto elevati. In questo quadro anche le crisi finanziarie derivanti dal forte apprezzamento del dollaro o dal crollo delle materie prime sono state in un primo tempo riassorbite senza troppi danni, data la velocità della crescita e quindi del riaggiustamento.

Tutto questo però è storia del passato. Nessuno è esente da errori e anche Greenspan può sbagliare: ha immesso troppa liquidità nel sistema a cavallo del millenium bug, ha forse tardato troppo nell'abbassare i tassi nella fase successiva. La bolla cresciuta nella new-economy è infine scoppiata, trascinando nella caduta anche buona parte della old-economy. Diciotto mesi fa l'economia americana sembrava una locomotiva che viaggiava con tassi di crescita al 5%, difficile da fermare anche con tassi d'interesse al 6%. Oggi la crescita è andata a zero e sembra impossibile rianimarla anche con tassi inferiori al 3%.

Quello a cui stiamo assistendo è una forte crisi di fiducia nella capacità di riportare l'economia sul sentiero dello sviluppo in breve tempo con gli strumenti tradizionali, e lo stesso Greenspan ha confessato lo spiazzamento delle autorità di politica economica nel capire ed interpretare i segnali che provengono dall'economia reale. Sarà anche vero che il modello econometrico della Fed prende in considerazione 14.000 dati, ma è molto difficile, per stessa ammissione del governatore, valutare l'impatto sull'economia dei forti capital gain degli anni passati e, viceversa, delle forti perdite di questi mesi. Il timore principale è che la caduta delle borse faccia crollare i consumi e quindi l'economia entri in recessione per davvero, provocando un disastroso auto-avvitamento. La fragilità del sistema finanziario è sempre in agguato, nonostante le tecniche di gestione delle crisi abbiano fatto molti passi in avanti e molta esperienza sul campo, dal '29 in poi. Alla fin fine, quello che sostiene il sistema è la contemporanea presenza di due elementi: a) la fiducia nella capacità della politica e dell'apparato militare di evitare conflitti su larga scala e di lunga durata; b) l'affidabilità delle banche centrali nello stabilizzare i mercati attraverso le manovre sul mercato aperto, garantendo tutta la liquidità necessaria a prevenire crisi di panico.

Mentre scriviamo nulla è ancora dato sapere sulla risposta militare; si sa invece che le banche centrali hanno predisposto una vasta azione coordinata per riaprire lunedì prossimo i mercati americani con la presenza di una rete eccezionale di strumenti regolatori per calmierare gli eccessi. Cinquanta miliardi di dollari è stato lo swap della Fed nei confronti della Bce per difendere il dollaro nei primi momenti. Va detto tuttavia che questa rete mostra la sua efficacia per periodi limitati, come abbiamo visto la settimana passata in Europa. Quando si lavora a nervi scoperti, i mercati restano in balia del panico e della speculazione, e alla lunga le forze autonome del mercato prevalgono. Se le borse sono convinte che si va verso la recessione, il movimento al ribasso potrà essere soltanto graduato nel tempo, non certo evitato.

L'eccezionalità della circostanza e la mancanza di precedenti storici rendono certamente difficile prevedere quello che accadrà nell'immediato. In base al ragionamento possiamo ipotizzare una fase articolata in una serie di passaggi:

interventi immediati per sostenere la liquidità dei mercati, la stabilità dei cambi, il sostegno alle quotazioni azionarie ed il controllo dei prezzi delle materie prime (petrolio innanzi tutto);

ritorno massiccio di politiche keynesiane di intervento diretto sulla domanda aggregata (soprattutto gli investimenti), a fronte della provata inefficacia della politica monetaria e dei tagli delle tasse nel rilanciare consumi e investimenti privati;

coordinamento delle politiche economiche per ripartire su tutte le tre principali aree del sistema onori e oneri del rilancio produttivo;

allentamento del patto di stabilità dell'Unione Monetaria europea, con possibilità di derogare ai vincoli di bilancio data la gravità della crisi.

Governare l'economia mondiale è in questa fase un po' come afferrare un coltello mentre cade: fra un annetto saremo in grado di capire se la presa è avvenuta per il manico o per la lama. Per ora occhi puntati sull'apertura dei mercati americani di lunedì 17: una data che può diventare famosa.

Renato Strumia



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