unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.33 del 30 settembre 2001

La guerra sarà lunga...

"La guerra sarà lunga ed è una guerra del Bene contro il Male; chi non è con noi è con il terrorismo." Questi, in estrema sintesi, i concetti chiave che dall'11 settembre 2001 l'amministrazione americana ha fatto propri e che sono stati veicolati dall'insieme di tutti i mezzi di comunicazione di massa. Accanto a questi veri e propri "messaggi promozionali", abbiamo potuto leggere su tutta la stampa internazionale raffinate analisi delle radici e delle conseguenze dell'attentato alle torri gemelle sullo scacchiere mondiale e sulle nostre società occidentali. Ma queste raffinate analisi, di fatto smascheranti le rozze linee guida dettate da Bush per il nostro futuro, fanno decisamente meno presa. Chiediamoci in primo luogo perché.

A mio parere, bisogna onestamente e dolorosamente incominciare con il dire che nel sentire comune non tutti i morti sono uguali. Quelli dell'11 settembre sono migliaia di morti, uccisi contemporaneamente, nel centro della capitale economica del mondo, in diretta televisiva planetaria. L'eccezionalità dell'evento è indiscutibile. Ma, soprattutto, i morti dell'11 settembre sono percepiti come morti "occidentali" (al di là della effettiva nazionalità di chi lavorava nelle torri gemelle). Quotidianamente leggiamo di migliaia di morti per fame o guerra, o vediamo in televisione servizi sui milioni di profughi che si trascinano in cerca di sopravvivenza. Sono morti, sono corpi, però, lontani. La rete di comunicazione che si stende in modo globale sul pianeta non funziona per tutti allo stesso modo. L'inquadratura e il tempo di esposizione delle immagini fanno, eccome, la differenza. E queste immagini ripetute agiscono oggi a livello di sentimento, azzerano la mediazione razionale, fan sorgere paura, rabbia, pietà, desiderio di punizione per i colpevoli. Pensiamo se venisse piazzata una telecamera fissa in un ospedale da campo afgano dove si curano i bambini vittime delle mine antiuomo o nel reparto pediatrico di un ospedale di iracheno o in un campo per profughi somali o sudanesi o eritrei; pensiamo se tutti i telegiornali ci aggiornassero quasi in diretta sulle agonie dei bambini, sulla mancanza di medicinali, sulle facce delle madri, sui sentimenti di medici e infermieri, sui nuovi arrivi e sui funerali di oggi. Una cosa del genere non accadrà mai, perché quelli non sono morti "nostri", non interessano né a chi monta il baraccone mediatico, né a chi paga il biglietto.

In questi anni abbiamo assistito poi ad un interessantissimo lavoro di sviamento lessicale. Si parla di "guerra al terrorismo", oggi, dopo aver parlato di "operazione di polizia internazionale" per la guerra di dieci anni fa contro l'Iraq e di "ingerenza umanitaria" per il Kosovo. La guerra però è sempre guerra, per chi la fa e la subisce. Si è lavorato allora sul piano del linguaggio e della morale. Il nemico è un "criminale", la guerra è "umanitaria", i missili sono "intelligenti". Entra in gioco il "diritto internazionale da ristabilire". Si badi come dieci anni fa contro l'Iraq l'intervento è sotto l'egida dell'ONU; come nella ex Jugoslavia si intervenga in parte sotto l'egida ONU, in parte come NATO; come oggi sia sufficiente la NATO. In Italia, l'art. 11 della Costituzione recita "L'Italia ripudia la guerra... come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni..."; l'art. 78 della Costituzione recita: "Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari". Ora, se la guerra diventa una "operazione di polizia internazionale", non c'è violazione della Costituzione e non c'è bisogno di alcun voto del Parlamento, basta la normale azione di Governo. Ma dato che la situazione è, oggi, eccezionale, il Governo si vedrà costretto a prendere provvedimenti eccezionali. Infatti, Berlusconi ha già dichiarato che ci sarà una legge finanziaria "straordinaria" e che stante la situazione di emergenza internazionale le decisioni saranno prese dal solo Governo. Ed è interessante notare come l'Ulivo si sia affrettato, da un lato a chiedere formalmente un dibattito parlamentare, ma contemporaneamente a dire che "L'Italia non è in guerra" e che le parole giuste da usare sono "operazione di polizia internazionale". Il fatto è che questa volta ci dicono che il nemico potrebbe essere ovunque, che potrebbe colpire ovunque, che la nostra vita cambierà e che la "guerra", appunto, sarà "lunga".

Il quadro appare ora un poco più chiaro. Parlerei di "stato di emergenza globale permanente". Nel nostro paese abbiamo fatto ampia esperienza della cultura dell'emergenza e abbiamo visto che in nome della "lotta al terrorismo" destra e sinistra parlamentari si sono unite, sono state promulgate leggi eccezionali, sono stati compressi i diritti individuali civili e sociali. Il tutto dentro un quadro di formale rispetto della Costituzione. Il conflitto sociale è diventato questione di ordine pubblico o, meglio, il conflitto sociale doveva essere accantonato o quantomeno messo in sordina, davanti alla minaccia terroristica che incombeva su tutta la società. Per far capire bene l'antifona a tutti, nel nostro paese si è avuta la "strategia della tensione", cioè "terrorismo di Stato", bombe in banche, piazze, stazioni, poste da manovalanza di estrema destra con la copertura di apparati dello Stato. Quel che ci può aspettare è qualcosa di simile, ma a livello "globale".

Formale rispetto della legge, restiamo "democrazie". Però è necessario affrontare una situazione di emergenza e quindi i diritti individuali devono soccombere "legalmente" davanti alla necessità di affrontare tale situazione.

Maggioranza e opposizione parlamentare unite per affrontare "il momento": da noi l'Ulivo, ispirato dagli ineffabili Violante (maestro di cultura dell'emergenza fin dagli anni '70), Amato e D'Alema, restituisce alla destra quel sostegno ricevuto per il Kosovo. La spesa degli Stati dovrà essere finalizzata ad affrontare l'emergenza: spostamento di risorse da scuola, sanità, pensioni a difesa e ordine pubblico. Il conflitto sociale deve attendere tempi migliori, è un lusso per tempi "normali". Più controlli sui diritti di manifestare, di muoversi, di esprimere opinioni: è necessario prevenire attacchi terroristici ed evitare "tensioni sociali". Dal welfare al warfare: l'economia deve sostenere lo sforzo "bellico", nel "supremo interesse della nazione"; e lo Stato deve sostenere le aziende, bisogna cercare di mantenere un adeguato livello di profitti, la Borsa deve "tenere". Insomma, "Chi non è con noi è contro di noi": chi lo diceva? E per quanto tempo? Non si sa: "la guerra sarà lunga".

Simone Bisacca



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org