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Da "Umanità Nova" n.33 del 30 settembre 2001

Dopo l'attacco agli USA
Analisi e prospettive

L'altro giorno un compagno angosciato mi diceva che, a poche ore dall'attacco alle torri gemelle di New York, in un centro sociale era stato esposto uno striscione con la scritta: "Diecimila in meno".

Se l'episodio è vero - e non ho alcun motivo per dubitarne - si è veramente assai lontani dal decifrare correttamente i problemi che emergono dall'ecatombe americana.

Quello che colpisce dello slogan in questione - a parte il cinismo becero e dozzinale - è la marcata stupidità politica: si afferma implicitamente che, se fosse nelle possibilità di questi contestatori da strapazzo, essi non esiterebbero a usare gli stessi mezzi di sterminio indiscriminato, che sono propri dei Bush e dai Bin Laden di turno.

Per fortuna tutto lascia pensare che gli autori della bravata siano come quei cani che abbaiano ferocemente salvo poi a leccare, con la coda tra le gambe, la mano che li colpisce.

Di certo, in quel centro sociale non c'erano degli anarchici, ché, altrimenti, o avrebbero impedito il gesto inconsulto o se ne sarebbero pubblicamente dissociati.

Il fatto però pone alcune questioni sulle quali è bene tentare di fare chiarezza.

Intanto un breve panorama della situazione.

Scontata la considerazione che l'attacco ai simboli della potenza economica e militare degli Stati Uniti ha obiettivamente ridimensionato l'arroganza dell'amministrazione americana, che ha toccato con mano il grado della sua vulnerabilità, resta il dilemma della qualità ed estensione della risposta. Sembra improbabile (mentre scriviamo non vi è nulla di certo) che i talebani consegnino Bin Laden alla giustizia americana o a quella di un tribunale internazionale. Ma se anche lo facessero, per esplicita dichiarazione di Bush e del suo entourage, la vicenda sarebbe tutt'altro che conclusa.

A parte l'Afganistan, infatti, nel mirino degli americani ci sono Iraq, Siria, Libia, lo stesso Pakistan e l'intera galassia degli Stati Arabi in quanto ricettacoli di frange integraliste, tutti stati che potrebbero essere coinvolti in un operazione di polizia internazionale dalle conseguenze difficilmente calcolabili per gli equilibri, già abbastanza precari, dell'intera area.

L'altro aspetto della questione riguarda le conseguenze dell'atto terroristico sullo scenario dell'economia mondiale.

Non sono dell'opinione che, passata la buriana, vi saranno significative inversioni di tendenza. Lo spettro della recessione, che aveva aleggiato sui santuari della potenza economica occidentale già prima dell'evento, non potrà certo essere esorcizzato dall'ondata patriottarda che ha investito l'America e che ha trascinato l'intero mondo capitalista in un'orgia di retorica solidaristica destinata a durare poco e a non modificare sostanzialmente i processi di media e lunga durata, che sono nella logica e nella prassi del sistema.

Del resto, se si prescinde dallo spettacolo offerto nelle contrade italiane ed europee dal deprimente carro di Tespi, con Berlusconi primo attore, gli altri paesi del nostro continente sono assai prudenti e non ipotizzano neppure spostamenti di rilievo negli indirizzi da tempo fissati. Certo, specie in casa nostra, le presunte nuove emergenze potrebbero fornire l'alibi per distrarre fondi, indirizzandoli verso l'industria bellica, in Italia già assai fiorente, a discapito degli stanziamenti per il mantenimento dello stato sociale. Ma, in generale, i margini di oscillazione di un'economia come quella italiana sono assai contenuti, sia perché ci sono "paletti" internazionali che autorizzano pochi giri di valzer, sia perché, se il centro-destra vuole governare per l'intera legislatura, deve guardarsi bene dallo scatenare conflitti sociali che potrebbero riportare la gente in piazza, con conseguenze difficilmente calcolabili.

Ricapitolando, io credo che la maggiore preoccupazione del mondo economico occidentale continuerà ad essere il controllo dei segnali di recessione evidenti da tempo, per evitare che si trasformino in effetti domino, catastrofici in sistemi integrati quali quelli che assicurano all'occidente opulenza e dominio.

Il discorso cambia completamente di tono se lo sguardo si sposta dall'economia alla politica interna nei singoli paesi del mondo capitalistico.

L'occasione della guerra santa proclamata da Bush contro il terrorismo internazionale è un'occasione troppo ghiotta per quei governi (e sono quasi tutti) che vogliono saldare i conti con le proprie opposizioni interne, e i pericoli sono tanto maggiori quanto più reazionari sono questi governi.

La prospettiva di una repressione più o meno strisciante, dopo i pronunciamenti corali dei maggiori leader europei, si fa più concreta.

Intanto, l'esaltazione manichea di una lotta al terrorismo internazionale, che tende a dividere drasticamente il mondo tra buoni (di pelle bianca, alti, dagli occhi azzurri, nel cui patrimonio genetico figurano tutte le buone ragioni del mondo) e i cattivi (neri, gialli, olivastri, che non mangiano con coltello e forchetta e non frequentano Wall Street) può giustificare misure drastiche. Questa ideologia dello spartiacque inequivocabile, tagliato di netto col coltello, che serve a imporre connotazioni precise agli schieramenti nello scacchiere internazionale, serve anche ad individuare e colpire i figli spuri, i reprobi che malauguratamente nascono, per i giuochi perversi del destino, anche dagli uteri virtuosi dello schieramento eletto. Come è possibile allora consentire che una quinta colonna sorga ed operi all'interno del fronte disposto per la guerra santa?

Al di là dell'ironia, il problema è assai serio.

Occorre che le opposizioni, i movimenti di contestazione più o meno radicali si dispongano ad affrontare questa ondata di neo pan-occidentalismo esasperato, questa guerra di religione, conservando i nervi saldi e prefigurando con il massimo di lucidità gli scenari del tutto inediti che si possono aprire.

È possibile vi sia una diffusa ripresa del militarismo, che si invertano i criteri di reclutamento e si ritorni a una sorta di coscrizione obbligatoria; che si rivedano le posizioni di coloro che hanno compiuto scelte alternative alla leva. La diserzione potrebbe essere una forma di lotta riattualizzata dalla nuova situazione.

La pace sociale potrebbe uscire dai normali confini degli equilibri economico-normativi tra capitale e lavoro per assumere valenza discriminante tra coloro che abbracciano la causa del bene e gli altri che la confutano.

Infine è assai probabile, anzi quasi cero, che cambi significativamente l'atteggiamento dei governi nei confronti dei raggruppamenti antiistituzionali e antiglobal. È infatti un giuoco da ragazzi contrabbandare per terrorismo un'opposizione dura ai regimi e applicare misure eccezionali con la scusa di dover fronteggiare il terrorismo internazionale, che, in questi movimenti nazionali, avrebbe i suoi fiancheggiatori.

Sono di questi giorni retate, perquisizioni e fermi di presunti anarchici insurrezionalisti in molte regioni d'Italia. Ebbene, a queste prove generali di repressione pretestuosa e indiscriminata occorre dare risposta immediata se non si vuole restare in balia di un regime che ha i fascisti in posizione privilegiata di governo e che si sente impegnato, come Bush, a debellare il "male" dal mondo.

Il Movimento anarchico è chiamato ad un compito difficile e su più fronti.

Il primo è senza dubbio quello di ricompattarsi e di ristabilire organismi di difesa che siano agili ed estesi. Attenzione, non intendo affatto riaprire il discorso infinito sull'organizzazione: voglio solo auspicare la ricostituzione di un tessuto militante che utilizzi al meglio le strutture che già esistono e che vanno applicate non modificate. In questa direzione ritengo sia importante intensificare il confronto e la collaborazione con i compagni che militano sotto altre sigle o che operano in autonomia. Moltiplicare gli incontri, potenziare la nostra stampa, intensificare la propaganda sono gli obiettivi minimi e immediati che tutti dobbiamo porci.

L'altro fronte è quello di portare elementi di chiarezza in una galassia della contestazione che stenta a elaborare strategie credibili, ad uscire dalla logica del "mordi e fuggi" che poco si adatta ad una situazione in cui si tenta di ulteriormente razionalizzare le logiche repressive. Bisogna far comprendere che è necessario ancorarsi al territorio, che non si può volare da un posto all'altro in una babele di lingue che la gente non riesce a decifrare, finendo con l'assimilare l'intero movimento con i gesti vandalici di pochi sconsiderati.

Tutto ciò va fatto subito, sollecitando le forze migliori che militano nel Movimento anarchico, superando polemiche ormai del tutto inattuali e pianificando con razionalità modalità d'intervento nel tessuto sociale e negli organismi internazionali libertari, adeguati alle nuove incombenze.

Antonio Cardella



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