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Da "Umanità Nova" n.34 del 7 ottobre 2001

La guerra moderna
La ferocia degli Stati

Come inizia una guerra? Quanti morti fa una guerra?; Quanti morti fa una dichiarazione di guerra?; Quanti feriti fa una guerra?; Quanto dura una guerra?; Quando inizia una guerra?; Quando finisce una guerra?; Chi sono i più colpiti da una guerra?; Che cosa vuol dire fare "una politica di guerra"? Perché viene scatenata una guerra? Con quali mezzi viene combattuta una guerra? Con quanti mezzi viene combattuta una guerra? Quali interessi copre una guerra? Quali conseguenze ha una guerra (ambientali, politiche, umane...)?...

Domande semplici e complicatissime allo stesso tempo, domande retoriche e non scontate allo stesso tempo: se in molti avessero il semplice coraggio di porsele, forse, per una attimo solo, eviteremmo di udire un vomitare di parole e di immagini a sostegno delle nuove e vecchie divinità del regime e del potere. La Semplificazione è il primo atto di questo Regime (non ha importanza l'abito che indossa): occorre biblicamente dicotomizzare (di qua il Bene di là il Male), giustificare (spesso si tratta di un atto di auto-assoluzione) e poi colpire per punire. Questo è sufficiente a dare spiegazione di tutto: "devono pur fare qualcosa, in fondo sono stati colpiti". Non importa sapere da chi, perché... sono stati colpiti, non occorre sapere nulla del prima e nulla del dopo, bisogna reagire, causa ed effetto. E non importa soprattutto sapere a quale Giustizia Divina corrisponda l'atto del punire: è così e punto. L'ordine per antonomasia "giusto" ha l'obbligo naturale di rispondere alla cancrena malefica dell'ordine "sbagliato" (e viceversa): facce della stessa medaglia.

Ma noi non ci accontentiamo, li disprezzeremmo comunque, ma vogliamo capire.

Proviamo a porre la questione dalla parte di un soggetto tanto ricorrente quanto emblematico di ogni politica militare: i profughi.

Tutti gli stati si battono per loro e nel loro nome, per poi essere i primi a crearli come tipologia della disperazione sociale ed umana, i primi a respingerli da ogni accoglienza e gli ultimi ad aiutarli. Un po' di cifre per capirci: nel 2000 l'ACNUR (Alto Commissariato delle le Nazioni Unite per i Rifugiati) ha posto sotto la propria protezione 21,3 milioni di persone, tra cui 1,2 milioni di richiedenti asilo, 2,5 milioni di rimpatriati e 6,9 milioni di sfollati. I rifugiati recensiti come tali non rappresentano che 11,6 milioni del totale. A questo computo indicativo mancano 30 milioni di persone che sono i cosiddetti profughi interni, quelli cioè che si spostano esclusivamente all'interno dei paesi di appartenenza. Se consideriamo che, quasi sempre, gli stati confinanti chiudono le proprie frontiere o costituiscono alcuni campi lager di accoglienza "temporanea", non abbiamo difficoltà a capire che costoro rappresentano una fetta enorme (più del 50%) dei profughi totali. L'ACNUR vive dei finanziamenti volontari dei governi mondiali, alcuni dei quali si celebrano nei fasti delle riunioni internazionali a ranghi ridotti (G8): ebbene, secondo le stime della stessa associazione, gli stati "ricchi" hanno destinato, nel 2000, appena lo 0,01% del loro PIL, alla causa dei rifugiati. Se si volesse fare un paragone contabile di carattere storico si giungerebbe a scoprire che nel 1980 l'ACNUR disponeva di 60 dollari a rifugiato, mentre nel 2001 ne ha soltanto 40. I rifugiati, poi, in quanto tali non corrispondono ad una categoria generale neppure dopo le guerre, le carestie...: ci sono rifugiati "di serie A", di "serie B, C..." e così via, a seconda della funzione politica che essi/e ricoprono a livello mondiale: un rifugiato kosovaro, tanto per capirci, nel 1999 aveva in dote 120 dollari, mentre un rifugiato dell'Africa Occidentale "soltanto" 30. Miseria per l'uno e miseria per l'altro, ma entrambi oggetti politici attivi del nuovo imperialismo internazionale.

L'Afganistan, negli anni '90, ha generato, a causa della guerra civile permanente, sino a 6 milioni di rifugiati, che si trovano prevalentemente in Iran ed in Pakistan di cui ne rimangono ancora 2,5 milioni (a cui se ne aggiunge un altro milione e mezzo sulla base esclusiva delle dichiarazioni di guerra statunitensi) negli attuali campi-città di cemento alle frontiere di questi stati. I campi attualmente esistenti sono circa 203, alcuni dei quali ebbero origine con l'invasione sovietica del 1980.

I rifugiati sono anche utilizzati come vere e proprie armi all'interno dei conflitti: nella conquista di alcuni territori a nord di Kabul, nella provincia settentrionale di Takhar, da parte dei Talebani, una parte della popolazione (circa 70.000 persone) è stata fatta sfollare, ai fini di garantirsi un maggiore controllo del territorio. Il controllo politico di un zona viene costruito, ed è così in ogni parte del mondo, grazie anche all'espulsione coatta di centinaia di migliaia di persone di "etnia" avversa o tramite l'eliminazione diretta della stessa. Le variabili sono legate per lo più alla raffinatezza stragistica delle parti in combattimento. Non dimentichiamoci che una delle maggiori opere di annientamento di una popolazione civile sta avvenendo in Iraq da ormai dieci anni grazie ad un democraticissimo embargo occidentale sui generi di prima necessità e sui medicinali.

L'annientamento delle persone prosegue poi in moltissimi di questi campi di internamento controllati, ad eccezione di alcune zone (sono molto interessanti le esperienze delle donne rivoluzionarie dell'Afganistan - RAWA), dagli stessi gruppi che hanno provocato o contribuito a generare gli ingenti spostamenti umani. Torture, lapidazioni, imprigionamenti, esecuzioni sommarie fanno parte delle relazioni "normali" di guerra di parti in conflitto. Non mi dilungo a ricordare il ruolo delle donne in questa situazione di martirio di genere ancor prima e concomitante dei martiri di guerra.

Sappiamo poi un'altra cosa: che i morti delle guerre, al contrario di quello che avveniva agli inizi di questo secolo, sono in assoluta maggioranza civili e tra questi quelli più inermi ed indifesi (bambini, donne e anziani). Percentuale più e percentuale meno i morti delle guerre e del militarismo (bisogna anche dirci con chiarezza che la pace armata fa numerosissime vittime: i soldi ingenti che gli stati spendono in armi sono risorse sottratte a cibo, sanità, istruzione... L'Europa spende annualmente 450.000 miliardi di lire in difesa, mentre gli Stati Uniti, da soli, hanno stanziato per il 2002 una cifra pari a 800.000 miliardi di lire.) sono al 95% civili ed al 5% militari. Se, infine, consideriamo che gran parte degli "interventi chirurgici" distruggono postazioni civili (ospedali, scuole, viabilità...) o luoghi di produzione industriale altamente nocivi (petrolchimici....) possiamo concludere che non è possibile tragicamente e cinicamente "contabilizzare" i disastri di un conflitto: avremmo sempre una computazione deficitaria.

Quello che possiamo fare è invece opporci sempre e comunque al loro modello di dominio economico, sociale e culturale: gli affari di armi non sono un elemento contingente del sistema capitalistico, ma sono parte strutturale e fondante del sistema stesso.

Pietro Stara

Fonti dell'articolo.

Amnesty International, Rapporto annuale 2001, Afghanistan

Philippe Rekacewicz, Milioni di rifugiati, un fardello per il Sud del mondo, in Le Monde Diplomatique, Arile 2001

Il Paese delle donne, Mondo/RAWA e il Campo, in internet



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