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Da "Umanità Nova" n.35 del 14 ottobre 2001

Terrore di Stato

La parola è passata alle bombe, alla distruzione, al dolore. Ordigni micidiali sono scagliati contro tutte le principali città afgane. Sulle macerie di vent'anni di conflitti, su una popolazione già allo stremo per fame, malattie e per la ferocia del regime di Kabul si abbatte la furia di Bush secondo. Gli affari di produttori e mercanti d'armi vanno a gonfie vele. Gli oppositori dei talebani, l'Alleanza del Nord, integralisti, assassini e stupratori tanto quanto i seguaci del Mullah Omar, si preparano all'offensiva, alla conquista del paese. Migliaia migliaia di profughi premono alle frontiere dell'Iran e del Pakistan. L'Apocalisse, evocata dai gazzettieri di ogni dove l'11 settembre, proietta la sua ombra tra le case di fango di contadini e pastori. Il fragore spettacolare delle Torri Gemelle trova un'eco sorda nelle montagne e nelle valli afgane, tra gente in gran parte analfabeta che non possiede né radio né televisioni, che l'America dei grattacieli e dell'high tech non riesce neppure a figurarsela.

Al terrore si risponde con un terrore ancora maggiore. Il terrore dello Stato più potente del mondo, pronto con la potenza delle armi a trasformare lo smacco subito in occasione di espansione economica e militare. Ma, come osservava con gelida noncuranza un commentatore radiofonico la sera del 7 ottobre, in questi casi non si possono escludere "effetti collaterali". Un modo pudico e rivoltante per definire la morte, la fame, le ustioni, la malattia. Persino l'uccisione di 4 uomini dell'ONU impegnati nell'opera di sminamento non è che un accidente casuale, una fatalità inevitabile.

Le armi della propaganda si affiancano ai missili e alle bombe: il fuoco dei bombardieri è lo strumento per la liberazione del popolo afgano dalla tirannide talebana. Ad ogni costo: soprattutto a costo della vita di chi si pretenderebbe salvare. Per chi sopravvive la mano misericordiosa degli assassini è pronta a paracadutare un tozzo di pane.

La lotta al terrorismo è la parola d'ordine che giustifica tutto, anche le più terribili efferatezze. E non solo in Afganistan. Lo dicevamo all'indomani dell'11 settembre, quando la sorpresa e l'orrore, amplificati ossessivamente dai media, aravano le coscienze per impiantarvi il seme dell'odio, per annichilire la capacità critica, per tacitare e criminalizzare il dissenso.

Mentre nel buio afgano muoiono uomini, donne, bambini qui da noi passano leggi liberticide contro gli immigrati ed i lavoratori tutti. In nome della sicurezza il governo si prepara a conferire maggiori poteri di arbitrio a polizia e servizi segreti. Tutta gente che in materia di stragi e terrorismo di stato ha una vasta e consolidata esperienza.

Il governo e buona parte dell'opposizione vanno a braccetto nel sostenere con Berlusconi che "le operazioni militari in Afganistan sono un atto di giustizia contro la barbarie". I barbari, ossia balbuzienti, per i greci antichi cui dobbiamo il termine, sono tutti coloro che non parlano la nostra lingua. Una lingua in cui giustizia significa distruzione e morte. Distruzione e morte per la gente dell'Afganistan ma, siamone certi, distruzione e morte per ogni pretesa che la cosiddetta "civiltà occidentale" possa scindere il proprio destino da una storia di sopraffazione, dominio, sfruttamento.

Una storia di guerre e feroci repressioni che non farà che alimentare, tra le genti del Pakistan, dell'Indonesia, dell'Iraq, della stessa laica Palestina il fuoco dell'integralismo religioso, della guerra santa, della morte liberatrice. Oltre le macerie di Kabul, nel cuore dell'Oriente, già nascono nuovi kamikaze, volontari della morte in un mondo che non offre alcuna speranza di giustizia.

Persino buona parte del movimento contro la guerra nostrano non riesce in maniera limpida ed inequivocabile ad opporsi alla ferocia smisurata che si sta abbattendo sull'Afganistan. Gli organizzatori della marcia Perugia-Assisi invocano un intervento di polizia internazionale sotto l'egida dell'ONU. Eppure le ferite ancora sanguinanti del milione di morti della infinita guerra irachena, dello strazio mai concluso della ex Jugoslavia dovrebbero essere un monito sufficiente per chiunque ancora si illuda sul ruolo dell'ONU, sulle operazioni "chirurgiche", sulla valenza "umanitaria" delle bombe.

Anche tra i pacifisti c'è chi balbetta, chi non sa pronunciare con sicurezza la parola giustizia. Una giustizia che può e deve avere lo stesso sapore, lo stesso colore, lo stesso senso in ogni luogo.

Giustizia sociale, libertà di pensare e vivere la propria vita, di godere delle risorse disponibili.

Per tutti. Ovunque. Semplicemente. Nella consapevolezza, banale, che ogni guerra è contro di noi, contro ciascuno di noi. Per questo noi siamo, sempre, contro tutte le guerre.

Maria Matteo



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