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Da "Umanità Nova" n.36 del 21 ottobre 2001
Stati pesanti e mercati leggeri
Old economy e politica di potenza
Tra le varie spiegazioni che si danno ai motivi di una guerra permanente
scatenata a partire dall'11 settembre - per meglio dire, accelerata dagli
attentati di New York e di Washington, perché la quarta guerra mondiale
è iniziata già all'indomani dell caduta del muro di Berlino
(novembre 1989), con la guerra del Golfo iniziata con l'invasione irachena del
Kuwait nell'agosto del 1990 - la pista economica risulta essere la più
gettonata, forse perché il pregiudizio marxista sul primato strutturale
dell'economia prevale all'interno della cultura italiana, segnata dal comunismo
come direbbe Berlusconi.
Molti hanno sottolineato un paio di aspetti: il controllo delle risorse
energetiche in zona, gli immensi giacimenti delle steppe asiatiche i cui
territori ricadono in stati indipendenti un tempo sottomessi all'Unione
sovietica, e oggi rientranti nella santa alleanza guidata dagli Usa, la
disponibilità di petrolio a quanto pare presente anche nel nord
dell'Afganistan, nonché il corridoio prenotato dalla transnazionale
Unocal sponsorizzata dagli Usa che da quelle terre dovrebbe portare il bene
prezioso nelle acque dell'oceano Indiano bypassando così la penisola
arabica, il travagliato medio-oriente, il Mediterraneo e l'area caspica, dove
non a caso si concentrano diversi conflitti brutali.
È tuttavia opportuno rilevare come la dipendenza americana dal petrolio
fuori patria sia al limite del 50% del proprio fabbisogno, e quindi la chiave
di lettura del controllo delle risorse energetiche diviene corretta solo a
patto di considerarla un fattore squisitamente geopolitico attinente ai
requisiti di sovranità e di dominio planetario, più che un
fattore banalmente economico di ricchezza.
Inoltre, è stato fatto notare come una guerra duratura quale si appresta
a essere lo sradicamento militare della rete del terrore Al Quaida - procedura
inedita secondo gli stessi manuali di dottrina militare, essendo più un
processo di intelligence politica coordinata a poter dare i migliori frutti in
tal senso - rilanci un volano economico-industriale di tipo keynesiano in grado
di arrestare la recessione mondiale, e americana soprattutto, attraverso una
serie di elementi quali la dissipazione di riserve materiali sovraccumulate,
gli incentivi statuali all'economia reale, una riordino disciplinare ferreo dei
soggetti dei costi del lavoro e delle materie prime (ricattati dall'atmosfera
bellica) e via dicendo.
Pur non essendo uno specialista di economia, tale lettura ottimistica - quanto
meno perché pensa che la storia si ripeta alla stessa maniera, e quindi
immagina che oggi si voglia anticipare un crollo tipo Wall Street 1929 (a cui
allora seguì il New Deal rooseveltiano e la guerra mondiale come terapia
salutare, a prescindere dalle decine di milioni di morti...) anteponendo la
cura militare al collasso prevedibilmente immediato - mal si concilia con tutto
ciò che si è detto e stradetto sulle nuove caratteristiche
dell'economia globalizzata, e cioè che la quota del circuito finanziario
oggi assomma ad oltre il 90% rispetto a tutto il monte economico mondiale. Del
resto, la new economy si alimentava di incrementi pazzeschi di valutazioni
fondate sul nulla reale, puntando tutto sulla speculazione e sui mercati
derivati che si basano sul gioco tutto psicologico delle aspettative. Si
calcola che lo scambio finanziario giornaliero sia valutato intorno ai 1700
miliardi di dollari tra effetti speculativi e scambi azionari e simili, mentre
l'economia reale di merci e servizi assommi a un controvalore di 5000 miliardi
l'anno.
È possibile piuttosto un'altra chiave di lettura rispetto a questa
neokeynesiana: la finanziarizzazione dell'economia capitalista globale ha
indebolito in non pochi risvolti il potere dell'élite politica statale,
privandola di risorse fiscali, di risorse per investimenti pubblici, e quindi
eroso i margini di manovra dell'autorità legittima, fra l'altro
sottoposta a scrutinio democratico e bisognosa di risorse clientelari e
monetarie per le costosissime campagne elettorali. Allora lo squilibrio interno
al complesso del potere globale a favore del ceto economico-finanziario ed a
sfavore del ceto politico può essere ricomposto attraverso un processo
di militarizzazione permanente che sconvolge il quadro di quotidianità
psicologica da cui gli speculatori possono proiettare scommesse - e da qui il
collasso della new economy la cui ricchezza era sganciata dai bilanci che
riflettono contabilità attive e passive su risultati industriali reali -
mentre con ciò riacquista peso una economia industriale, legata alle
committenze pubbliche bandite a livello ideologico (non certo a livello
pratico) dal neoliberismo imperante che ora subisce una battuta di arresto
perché risottomessa al potere politico che riprende a dettare l'ordine
del giorno di un pianeta sconvolto dalla politica di guerra.
Gli eventi che stiamo vivendo hanno a che vedere non solo con gli effetti
politici che la globalizzazione imprimeva sganciando il processo globale dal
timone della politica per come è stato da secoli e secoli, dando il
primato ad un mercato sempre colluso con la politica ma con rapporti di forza
diversi da prima, e soprattutto eludendo le procedure di legittimazione
democratiche che hanno scatenato in parte anche le ragioni sempre più
diffuse del popolo di Seattle, e che ora trovano una prima risposta da destra
attraverso il ricorso allo stato di eccezione, ossia la guerra come stretta
primaria della politica su tutto il resto, forze non-politiche della
globalizzazione incluse.
Peccato che tale rivincita della politica passi sul cadavere
dell'umanità!
Salvo Vaccaro
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