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Da "Umanità Nova" n.36 del 21 ottobre 2001

Economia di guerra
I nuovi keynesiani

"Il cambiamento è nell'aria. Il cambiamento dell'economia, si intende. Economia della paura, economia di guerra, fine del dividendo per la pace, intervento dello stato da parte dei repubblicani. Le aziende cercano di identificare le nuove dinamiche dei modelli di comportamento, si studiano nuove forme di pubblicità, le case automobilistiche pensano a nuovi modelli, a un nuovo design. Ci si domanda come reagiranno i consumatori: la paura, i timori di nuovi attentati cambiano le abitudini. Si teme una divergenza esplosiva fra domanda e offerta". (Mario Platero, Il Sole 24 ore del 10.10.2001).

In meno di un mese sono cambiate le coordinate del dibattito economico su scala mondiale. Prima le discussioni dei vari guru dell'economia vertevano sull'esistenza o meno di una recessione nei principali paesi industrializzati, ed eventualmente in quale trimestre prossimo venturo avrebbero cominciato a manifestarsi i primi segnali di ripresa. I più spericolati si avventuravano anche a pronosticare la forma che avrebbe preso la curva dello sviluppo economico in questa fase di "rallentamento" (una definizione che veniva da tutti accettata senza provocare scandalo): i più ottimisti prevedevano una forma a "V", cioè rapida fuoriuscita dalla crisi; i più prudenti la vedevano come una "U", una crisi non breve seguita da una ripresa graduale; i più gufi se la immaginavano come una "L", una caduta durevole con un lungo strascico di spostamento "laterale"; ultimamente abbiamo avuto il piacere di leggere la previsione di una curva a "W" valida per l'Europa, cioè una caduta, una rapida ripresa, una nuova caduta, un'altra veloce risalita.

La fantasia degli economisti è notevole, tuttavia neanche lontanamente paragonabile alla capacità dei politici di sfruttare qualunque imprevisto per imporre le proprie inconfessabili ragioni e volgere ogni disastro in argomenti a sostegno della propria linea. Dal momento successivo agli attentati negli Stati Uniti, l'amministrazione Bush ha marciato come un sol uomo per sfruttare a proprio vantaggio tutte le occasioni che la situazione presentava. Nel campo geopolitico la guerra al terrorismo fornisce la migliore occasione (come dimostra un'attenta analisi dei documenti ufficiali del Dipartimento di Stato) per andare ad insediare le proprie basi logistiche in una zona del mondo strategica, sia per il controllo delle risorse energetiche, sia per la concorrente presenza di tre grandi potenze regionali in potenziale conflitto (India, Cina, Giappone). Nel campo politico-militare il ritrovamento di un nuovo nemico pone le basi per un giustificato aumento delle risorse da destinare alle forze armate, dopo il decennio seguito alla fine della guerra fredda e alla crescente tendenza isolazionista di una parte della società americana. Nel campo economico siamo forse arrivati alla possibile soluzione di una situazione di crisi che si stava avvitando su se stessa senza che nessuna leadership mondiale avesse l'autorevolezza o gli strumenti per affrontarla. La stessa politica monetaria della Federal Riserve, che era arrivata ad abbassare in otto tagli consecutivi il tasso sui Fed Funds al 3,5%, si era rivelata inefficace, così come l'ingente taglio alle tasse voluto da Bush per ripagare i suoi elettori di fascia medio-alta. Improvvisamente, di fronte all'emergenza, molti tasselli hanno cominciato ad andare a posto e molte cose hanno cominciato a chiarirsi. La sfida è adesso quella di capire se siamo in presenza di una ordinaria gestione della crisi o se si tratta dei primi sintomi di una vera "rivoluzione scientifica" e l'emergere di un nuovo paradigma.

L'ortodossia economica degli ultimi 20 anni, di qua e di là dell'Atlantico, prevedeva alcuni punti fermi:

  • lo stato non deve intervenire direttamente nell'economia e ritirarsi dai settori nei quali è presente, con la sola esclusione di quei beni/servizi che nessun privato è disposto a fornire in quanto non remunerativi;

  • il mercato si dà le proprie regole e garantisce l'allocazione razionale delle risorse, la migliore cosa che può fare lo stato è astenersi dall'intervenire e limitarsi a fissare delle regole che assicurino l'efficiente funzionamento del mercato;

  • nessun settore o azienda privata deve essere sostenuta dal sussidio pubblico, chi entra in difficoltà deve fallire e lasciare il posto a concorrenti più competitivi.

Gran parte delle cose accadute dopo l'11 settembre dimostrano che senza l'intervento diretto dello stato, in contrasto con tutti e tre i principi difesi sul piano ideologico, le conseguenze economiche sul sistema mondiale sarebbero state ben più pesanti dell'attacco alle torri gemelle. È stato l'intervento coordinato dei governatori delle banche centrali a "far funzionare i mercati" con un'immissione di liquidità senza precedenti, che ha frenato la caduta delle borse e degli indici di fiducia. I principi ideologici dell'ortodossia sono rapidamente stati sostituiti dall'appello patriottico al consumatore americano, vero pilastro della crescita economica degli ultimi dieci anni, e soprattutto dalla decisione di immettere nel sistema una ingente quantità di spesa pubblica. Nelle prime ore l'amministrazione Bush ha stanziato 40 miliardi di dollari per gli interventi di ricostruzione e per rafforzare le misure di sicurezza, e immediatamente dopo ha stanziato 15 miliardi di dollari per sostenere le compagnie aeree (piegate dagli attentati, ma in crisi strutturale già prima), che minacciano di licenziare 100.000 lavoratori entro la fine dell'anno. Greenspan è arrivato a caldeggiare una manovra straordinaria da 100 miliardi di dollari ed un congresso più che mai "bipartisan" l'ha già preso in parola, votando uno stanziamento compreso tra i 60 e i 75 miliardi di dollari per il 2002. Questa cifra dovrebbe essere utilizzata attraverso un mix di provvedimenti, in grado di soddisfare tutta la vasta gamma degli interessi presenti nell'amministrazione, ma anche ammorbidire l'opposizione democratica: si parla di 42 miliardi di dollari da stornare a favore del Pentagono (che già oggi riceve oltre 300 miliardi di dollari, tre volte il bilancio militare di tutti i principali paesi europei messi insieme), ma anche di un aumento dei sussidi di disoccupazione, una dilazione nel pagamento delle tasse, una ulteriore restituzione fiscale alle famiglie a reddito medio-basso, un abbassamento dell'aliquota sulle tasse alle imprese dal 35% al 30%. Le casse dell'azienda U.S.A. sono certo in grado di sostenere questo nuovo interventismo keynesiano nell'economia: il surplus di bilancio viene valutato in almeno 130-140 miliardi di dollari annui, e quindi l'insieme delle misure intraprese sinora (40 + 15 + 75 miliardi di dollari) è in grado di intaccare appena il surplus di un solo anno. Quanto al bilancio statale, il debito pubblico Usa viaggia su una percentuale del Pil attorno al 40%, ben al di sotto di quello medio europeo (70%) e infinitamente inferiore al Giappone (130%). Ci sono dunque i margini per sostenere una rinnovata politica di "deficit spending" o addirittura accelerare il piano di Bush per restituire ai contribuenti in modo più accelerato quei 1.340 miliardi di dollari in 10 anni che sono già stati approvati dal Congresso. La discussione semmai si concentra sulle modalità e sull'articolazione che prende l'intervento dello stato nell'economia. I cultori dell'ortodossia, ad esempio, sono abbastanza scandalizzati da questo rapido abbandono dei principi e si chiedono se non ci sia dell'esagerazione in questo riposizionamento ideologico. I repubblicani conservatori, ad esempio, puntano le loro critiche sulla strisciante privatizzazione delle compagnie aeree, dopo che per decenni hanno criticato il salvataggio della Chrysler nel 1979 ad opera del democratico Carter. Lo stesso Greenspan invita alla prudenza, sostenendo che è prematuro valutare adesso le conseguenze durevoli dello shock terroristico, e invita ad interventi decisi, ma diluiti nel tempo, in modo da affrontare le prevedibili difficoltà con interventi mirati al breve periodo, e non con una modifica strutturale e duratura dell'assetto economico.

Quanto ai tempi della ripresa, i più pessimisti la fanno partire dalla metà del 2002, quindi con non più di tre trimestri consecutivi di recessione. Non mancano ipotesi più pessimistiche ed anche alcune previsioni catastrofiche. Ad esempio il Credit Suisse First Boston si tiene aperte varie ipotesi, compresa quella di un allargamento del conflitto ed una sostanziale rottura dell'alleanza anti-terrorismo, prima di aver conseguito risultato alcuno: in questo caso si ipotizza una situazione di caos sistemico, con il prezzo del petrolio al di sopra dei 50 dollari al barile ed una situazione di grave recessione mondiale prolungata.

In questa situazione di emergenza e di fibrillazione, non può non stupire l'insensata nonchalance con cui i vertici dell'economia monetaria europea guardano allo sviluppo degli avvenimenti mondiali. Di fronte ad un ampio e manifesto deterioramento della situazione economica, la Bce ha continuato per mesi ad inviare segnali rassicuranti quanto irrealistici, rifiutandosi di abbassare i tassi e di prendere in considerazione l'ipotesi di derogare temporaneamente agli stringenti vincoli di bilancio che gravano sulle economie nazionali. Ogni ipotesi di scostamento dal patto di stabilità viene stigmatizzata con la massima severità e solerzia da parte di Duisenberg e compagni, mentre è evidente che nessuno dei principali paesi riuscirà a fine anno a rispettare gli impegni. Nonostante questo, nessun politico europeo se la sente di assumere un ruolo autonomo, continuando a comportarsi come scolaretti che incassano supinamente le bacchettate del governatore della Bce e dei suoi aiutanti. È evidente invece che l'urgenza di una scelta diversa finirà per imporsi, dato che è illusorio pensare ad un'Europa protetta dalla recessione in un'economia globale. Anche in Europa deve cominciare a cambiare il linguaggio ufficiale dei custodi della moneta.

Per quanto riguarda l'Italia, va detto che la marginalità nell'ambito della teoria economica ed il provincialismo culturale non hanno permesso di assistere ad alcun "cambiamento di marcia". La nuova situazione ha finito prevedibilmente per favorire la lobby interna che preme da anni per un aumento delle risorse da destinare alla difesa, alle forze armate, alla sicurezza e al sostegno del nuovo ruolo internazionale e armaiolo dell'Italia. Dopo tre anni di calo, il bilancio della difesa era già stato aumentato nel 2000, dopo la gloriosa guerra umanitaria condotta nelle plaghe balcaniche: dai 30.854 miliardi del 1999, il bilancio della difesa era salito a 32.846 miliardi, con il bell'incremento del 6,45%. Nel 2001 si è fatto di meglio: 34.235 miliardi, un altro salto del 4,23%. In due anni siamo al 10,68%, se la matematica non è un'opinione, e non ci sembra che l'inflazione sia stata così alta, né la spesa per pensioni o sanità... Nel 2002 comunque è prevedibile che si spenderà di più: circa 3.000 miliardi, in parte con la giustificazione che occorre mettere a regime il nuovo contratto dei carabinieri, e poi anche Berlusconi ha promesso dopo Genova un adeguamento degli stipendi per i poliziotti. Una buona fetta comunque va destinata all'adeguamento dei sistemi d'arma, nonché alle spese per formazione e addestramento. Insomma, anche il warfare italiano potrà contare su nuove risorse aggiuntive, da recuperare attraverso le manovre su sanità, previdenza, taglio all'organico del settore pubblico. Alla periferia dell'Impero, tutto si svolge su scala ridotta. D'altronde, questa non è l'America...

Renato Strumia



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