![]() Da "Umanità Nova" n.37 del 28 ottobre 2001 Peste moraleÈ una grande metafora. La metafora della debolezza della ragione rispetto all'irrazionale, la metafora di quanto sia aleatoria una pacifica convivenza quando sia sottoposta agli attacchi di un'aggressività sociale svincolata da ogni regola e da ogni patto. Il carbonchio, l'antrace, la peste, il vaiolo, i temibili bacilli debellati dall'uomo, ricompaiono come incubi concreti, imprevisti ma prevedibili, ad aggredire un organismo che si pensava definitivamente immune. La grande malattia, la virulenta malattia che ha preso corpo l'11 settembre, esplode ora nella società statunitense con conseguenze ancora inimmaginabili.
Una peste morale prima ancora che materiale. Una peste che si sta inoculando nella società americana, che si insinua in un corpo abituato a considerarsi sano, il più sano e il più inossidabile, e proprio per questo il più indifeso nel momento in cui il sogno finisce e l'incantesimo si spezza. E lo sta devastando. E lo sta rendendo aggredibile da qualunque malattia morale. Una peste che può crescere e riprodursi non solo nel brodo di coltura dei laboratori di morte e di ricerca "scientifica" degli Usa, o dell'Iraq, o dell'ex Urss, ma anche, e soprattutto, in quello dell'odio etnico, dell'intolleranza, del razzismo. Oggi in America, poi si vedrà... Non importa dove, non importa come, e forse non importa neanche da chi, se da un fondamentalismo religioso nato nei deserti della penisola araba o da quello speculare sviluppatosi nelle fertili pianure del mid-west americano, ma questa peste, come ogni peste, se riuscirà ad esplodere non risparmierà nessuno, né tantomeno gli untori.
Gli Stati Uniti si scoprono deboli e vulnerabili, non sono più invincibili. Si sentono come un trentenne immune da malattie, che a un certo punto scopre che anche il suo fisico è mortale e deperibile. È il senso della morte, della transitorietà, che si sta impadronendo di un popolo. È un trauma mai provato in precedenza, le cui avvisaglie sono state gli spettacolari crolli delle torri gemelle, ma il cui futuro sembra essere la tragica vulnerabilità di fronte a un aggressore silente e invisibile. L'inviolabilità del proprio territorio, così drammaticamente frantumata l'11 settembre, si riflette ora nella violabilità del proprio corpo. E questa cultura dell'emergenza che si sta affermando con prepotenza, mentre sembra ridare unità e coesione alle genti nordamericane, in effetti getta le basi per una drammatica frantumazione sociale.
A cosa può portare tutto ciò? Al di là del non facile (o forse troppo facile) interrogativo, a questo punto abbastanza irrilevante, su chi abbia materialmente diffuso il carbonchio, interessa piuttosto chiedersi quali possano essere gli sbocchi di questa situazione. Da una parte sarà inevitabile l'ulteriore incarognimento di un'opinione pubblica occidentale che, spinta dalla paura e indignata per un oltraggio che non riesce a capire, troverà nuove e rinnovate ragioni per continuare la sua crociata contro il terrorismo. Affiancando e sostenendo con isterica energia ogni iniziativa bellicista della sua classe dirigente. Dall'altra, nel campo avverso, la conferma che il nemico è vulnerabile e accessibile, e che quindi i richiami alla cosiddetta guerra santa non nascono dagli effetti di un eccessivo consumo di ottimo hashish afgano, ma dalla possibilità concreta di un processo di "emancipazione". Come si capisce, tutto per esacerbare il conflitto, per trovare ineluttabili motivi di combattere, per radicalizzare uno scontro che altrimenti, nei tempi lunghi, rischierebbe di perdere per strada le proprie ragioni d'essere.
Da una parte, come sempre, poteri economici e finanziari, più o meno organizzati in strutture statali, che si fronteggiano per motivi molto concreti e ben poco "ideali", motivi che dovrebbero restare ignoti alla grande massa dei cittadini: il possesso degli oleodotti, il controllo delle riserve idriche e delle vie di comunicazione, la ripresa economica contro la recessione, la ricerca di maggiori profitti per le multinazionali, lo stabilirsi di nuove alleanze planetarie, la ridefinizione degli equilibri all'interno delle borghesie arabe... Non c'è che l'imbarazzo della scelta. Dall'altra parte i popoli, le genti, le moltitudini, le classi, gli sfruttati, le masse, chiamiamole come vogliamo ché la sostanza non cambia. I primi e gli unici, in definitiva, a fare le spese della guerra, a offrire sull'altare del profitto altrui i propri corpi piagati dalle bombe americane o dalle mine italiane, invasi dalle spore del carbonchio o dai bacilli di malattie che credevamo relegate al passato. Vittime materiali nella carne ma prima ancora vittime morali di una propaganda razzista, nazionalista e religiosa, tanto sottile quanto infame.
Guerre sante, crociate, carbonchio, peste, medioevo. Si parla molto in questi giorni di un ritorno al passato e mi permetto allora una proposta legata anch'essa al passato. Invece di costringere intere popolazioni a farsi la guerra e a uccidersi in nome e per conto di interessi estranei, si organizzi, vivaddio, un bel torneo cavalleresco: da una parte il saladino Saddam, lo scudiero Osama e una schiera di petrolieri sauditi e preti iraniani, dall'altra il crociato Bush, accompagnato dal vassallo Blair e da una torma di rapaci magnati occidentali. Se proprio hanno tanta voglia di menar le mani, che se le diano di santa ragione, giù botte che nemmeno Sandrone e il Finto Moro al teatro dei burattini, senza pietà né remissione, che se le diano in nome della ragion di stato, della superiorità delle culture, dell'accaparramento delle risorse, della possibilità di continuare i loro sporchi affari. Che se la vedano fra di loro, una buona volta, senza costringere altri a morire in loro nome, che ci liberino finalmente delle loro presenze. E che ci lascino liberi di costruirci una esistenza dignitosa, libera dall'oppressione e dall'intolleranza, libera dallo sfruttamento e dalla violenza, libera, soprattutto, dalla paura. Massimo Ortalli
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