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Da "Umanità Nova" n.40 del 18 novembre 2001
Napoli città sociale?
Strit Festival: riflessioni a margine
Giunto ormai alla sua terza edizione, il Napoli Strit Festival (festival degli
artisti di strada: musicisti, teatranti, ballerini, clown, etc.) appare
quest'anno associato al programma del Comune di Napoli riguardante le politiche
sociali. Fermo restando l'interesse suscitato dai numerosi gruppi artistici
esibitisi in questi tre giorni (12-13-14 ottobre) per le strade della
città, molte perplessità rimangono sia sul senso di operazioni di
vetrina come questa, sia sulle logiche complessive che determinano nell'epoca
della globalizzazione l'erogazione di servizi sociali da parte delle
amministrazioni locali, longa manus delle mai defunte (contrariamente a quello
che si continua a predicare da più parti) entità statuali.
La marginalizzazione delle associazioni del terzo settore all'interno del
progetto complessivo del festival è stata il leitmotiv che ha confermato
le contraddizioni inerenti al cosiddetto privato sociale. La totale mancanza di
mezzi e risorse messe a disposizione dei gruppi presenti, la carenza
pressoché completa di coordinamento e informazione, le lacune evidenti
dell'organizzazione messa in piedi a Piazza Plebiscito, dovrebbero dirla lunga
sulla considerazione mostrata dalle istituzioni nei confronti
dell'associazionismo. Delegato semplicemente a svolgere il lavoro sporco
dell'assistenza alle fasce sociali più deboli (disabili, immigrati,
tossicodipendenti, adolescenza "a rischio", etc.), esso continua a pagare il
prezzo della selvaggia precarizzazione dettata dalle logiche del neoliberismo.
Quello che emerge con più evidenza dall'esperienza dello Strit Festival
è, al di là di tutto, l'incredibile passività politica del
settore, incapace di esprimere una lettura minimamente critica
dell'esistente.
Volendo, al contrario, operare una lettura politica di iniziative come questa,
magari in chiave libertaria, si potrebbe osservare che sfugge alle associazioni
del cosiddetto "privato sociale" (definizione già discutibile) il
collegamento tra il loro lavoro quotidiano e i processi di interdipendenza
dell'economia a livello globale. Non si sa o non si dice forse abbastanza come
nel tavolo di discussione del WTO del 2000 sulla liberalizzazione di
investimenti e commercio (il cosiddetto Millennium Round) si parlasse di
facilitazioni per la privatizzazione da parte degli Stati Nazionali di quei
servizi sociali che nell'ottica del Welfare rientravano tra le loro prerogative
essenziali. Lo sfruttamento selvaggio che oggi subisce il terzo settore, con
gli operatori (precari) pagati malissimo e in ritardo, senza le più
elementari garanzie sindacali (dallo sciopero al diritto alla malattia
retribuita), in balia di gare d'appalto che favoriscono il ribasso del prezzo
della forza lavoro e rispondono a logiche clientelari più che di
effettiva utilità sociale, potrebbe essere solo una pallida
prefigurazione di quello che tale settore si accinge a diventare quando la
globalizzazione dei servizi sarà una realtà compiuta.
Legittimato sulla base della tanto sbandierata logica della
sussidiarietà, il trasferimento di progettualità sociale dalle
competenze dello Stato e delle amministrazioni locali a quelle del privato
sociale, avviato paradossalmente dai governi di "sinistra", conferma l'agonia
del modello socialdemocratico riformista. Sempre più esautorato di
potere progettuale e decisionale effettivo, lo Stato serve ormai solo come
potere militare atto a intervenire a sostegno degli interessi del capitale su
scala globale. Non gli rimane altro che pagare (poco e in ritardo) alcuni
inconsapevoli "volontari" per svolgere interventi assistenzialistici incapaci
di risolvere le contraddizioni sociali create dal capitale.
Di tutto questo si è discusso poco o niente nella manifestazione
napoletana dal titolo "Napoli città sociale", dove le associazioni erano
soltanto impegnate nella presentazione della propria immagine e del proprio
(miope) lavoro sul territorio. L'idea (sbagliatissima) che la globalizzazione
sia un fenomeno distante dalla nostra vita quotidiana penalizza ancora una
volta fortemente la nostra capacità di mobilitazione e organizzazione
politica. L'unica alternativa possibile all'attuale stato di cose,
l'autogestione dei servizi sociali essenziali, sarebbe attuabile solo
attraverso una presa di coscienza collettiva che appare ancora purtroppo
lontana dall'orizzonte.
Marco Nieli
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