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Da "Umanità Nova" n.44 del 16 dicembre 2001

Sulla pelle dei lavoratori
Livorno: verso il fallimento il cantiere "autogestito"

La vicenda del Cantiere Navale Fratelli Orlando si sta avviando alla triste conclusione. Forse fra pochi giorni sarà dato alla città l'annuncio che la società non può onorare i propri impegni, forse riuscirà ad ottenere un finanziamento che le permetterà di vivacchiare per qualche mese. Dopo anni di trionfalismo, di culto dei dirigenti e dell'imprenditorialità, questa avventura si concluderà con le vittime di sempre: i lavoratori, del Cantiere e dell'indotto, e le loro famiglie, gettati sul lastrico dai mercanti avventurieri di Livorno. Qualcuno certamente tenterà di gettare le colpe sull'attuale governo, che sicuramente non opera a vantaggio dei lavoratori, e di quelli del Cantiere Navale in particolare; qualcuno tornerà ad agitare i temi dell'ideologia, cercando di nascondere le principali responsabilità del disastro con la retorica.

Che si tratti di un caso politico è certo, ma il fallimento del consorzio di cooperative che ha rilevato alcuni anni or sono il Cantiere Navale dalla Fincantieri non si può ascrivere solo alla malevolenza del signor Berlusconi e dei suoi dipendenti. Si tratta in realtà di un fallimento gestionale, economico e finanziario.

Sul piano dell'organizzazione del lavoro, la gestione della cooperativa si è subito caratterizzata per il ripristino della gerarchia aziendale e per una netta separazione tra i lavoratori soci delle cinque cooperative e i dipendenti delle ditte appaltatrici. Il controllo operaio sul processo lavorativo, paradossalmente, così come la possibilità di imporre condizioni di lavoro più umane, era maggiore sotto la gestione Fincantieri che sotto quella del consorzio.

Questo scimmiottamento dell'organizzazione aziendale modello anni '50 si è tradotta poi in un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro, tanto che in breve tempo ben tre lavoratori hanno lasciato la vita all'interno del Cantiere Navale.

Dal punto di vista della produttività e della qualità del prodotto tale tipo di organizzazione si è ugualmente dimostrata un fallimento, in quanto ha trasformato ogni operazione in fonte continua di conflitti tra operai e capi, tra dipendenti del cantiere e dell'indotto, tra reparti diversi: ogni insuccesso non spingeva a cercare insieme la possibile soluzione, ma dava il via ad uno scaricabarile che gravava sempre sulle spalle del più debole.

La camarilla che ha gestito il Cantiere Navale sotto la maschera dell'autogestione, forte di appoggi politici e sindacali, ha del resto compiuto scelte economiche dettate dal pressappochismo e dal trionfalismo. Essersi gettati nelle costruzioni navali senza essere dotati di un proprio ufficio studi e progettazioni, capace di rispondere alle esigenze degli armatori adeguando la progettazione della nave alle capacità del Cantiere Navale; essersi impegnati nella faraonica riapertura dello Scalo Morosini, quando ormai in tutto il mondo le navi più grandi vengono costruite in vasca e non sullo scalo, sono due segnali importanti della scarsa cultura industriale degli amministratori del Cantiere e delle forze politiche, sindacali e imprenditoriali (Lega delle Cooperative) che li hanno appoggiati. Il progetto dello Scalo Morosini in particolare sembra tagliato più che altro per mettere le mani sui finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, con cui dare sollievo alla mai sazia fame di liquidità degli amministratori, sottraendo d'altra parte tali fondi a realtà più piccole ma forse capaci di dare stimoli maggiori e più duraturi all'occupazione.

Il fallimento finanziario è da una parte il risultato dell'organizzazione del lavoro e della gestione economica, dall'altro ha precise ragioni in una gestione che premia in termini di reddito gli amministratori e in misura minore i soci delle cooperative (non ci sono più operai), senza tener conto della necessità elementare di far fronte, con i flussi in entrata, ai flussi in uscita derivanti dall'utilizzo dei fattori della produzione. Detto in soldoni, non si capisce, o si capisce troppo bene, se si da credito a leggende che da tempo circolano a Livorno, come gli incassi derivanti dagli stati di avanzamento delle navi in costruzione, non siano mai stati sufficienti a pagare tempestivamente i fornitori e le ditte dell'indotto, e gli amministratori, personaggi di indubbia capacità contabile e fiscale, siano stati costretti a ricorrere a sempre maggiori finanziamenti da parte delle banche.

Questa riflessione introduce un altro complice della rovina di migliaia di famiglie di lavoratori. Dopo aver sostenuto per anni tutte le iniziative del Cantiere Navale, il pool di banche guidato dal Monte dei Paschi sta nicchiando sull'ultimo finanziamento.

Ora delle due l'una:

- o il Cantiere Navale è in fallimento, dovuto ad un ormai prolungato stato di insolvenza e dal fatto che la massa del passivo, dei debiti accumulati supera l'attivo patrimoniale, e allora è necessario aprire il più rapidamente possibile la relativa procedura e nominare gli organi preposti, il cui primo atto dovrebbe essere quello di revocare, sulla base della revocatoria fallimentare, quegli atti destinati a creare dei creditori privilegiati (vedi mutui ipotecari), quando agli istituti finanziari era già ben nota la situazione di insolvenza del Cantiere Navale. Questo atto avrebbe come conseguenza quella di aumentare la massa dell'attivo a disposizione dei creditori chirografari (soprattutto ditte dell'indotto), garantendo indirettamente le retribuzioni dei lavoratori;

- o il Cantiere Navale si trova in una momentanea difficoltà ad adempiere, e allora le banche, beneficiarie di ipoteche sulle aree a mare, puntano a trasformare questa difficoltà momentanea in un vero e proprio fallimento, in modo da mettere le mani sulle aree stesse, appoggiando magari qualche manovra speculativa.

La situazione rimane comunque drammatica, ed aperta ad ogni possibile soluzione. Per lunedì 10 dicembre il sindaco ha indetto due riunioni, una con i sindacati di Stato, l'altra con i vertici locali della Lega delle Cooperative, il presidente della Provincia, quello dell'Autorità Portuale e il vicepresidente della Compagnia Finanziaria Industriale, braccio esecutivo del fondo mutualistico della Lega delle Cooperative, con l'obiettivo di sbloccare i finanziamenti al Cantiere Navale. Ancora una volta le istituzioni statali corrono in soccorso dei capitalisti incapaci di far funzionare le loro aziende, ancora una volta si disinteressano dei problemi di sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie. Nessun finanziamento arriverà direttamente a loro, senza passare prima per le mani degli amministratori e dei titolari delle aziende. La Lega delle Cooperative dimostra ancora una volta di essersi dimenticata che il movimento cooperativo è nato dal movimento operaio, e trae la sua forza dalla forza di questo: la scelta imprenditoriale, a Livorno come nel resto d'Italia, ha portato solo a continui fallimenti.

Capelli Tinti



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