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Da "Umanità Nova" n. 2 del 20 gennaio 2002

Il collasso argentino
Alle radici della crisi

L'Argentina è esplosa alla vigilia di Natale, dopo sei mesi di un'agonia che non sarebbe stato difficile evitare. Il rischio paese ha cominciato a decollare lentamente a partire da maggio, quando bastava pagare cinque punti in più di tasso d'interesse per continuare a finanziarsi sui mercati mondiali, per esplodere dopo l'11 settembre ed arrivare infine alla vetta dei 50 punti in più nel mese di dicembre. Adesso nessuno è più disponibile a puntare una lira su questo travagliato paese, i titoli argentini sono stati sospesi per alcune settimane e occorrerà aspettare un lungo negoziato tra il nuovo governo, il FMI e i creditori internazionali per capire quanto si è perso. Di sicuro coloro che hanno perso di più sono gli argentini, la stragrande maggioranza di coloro che non hanno nessuna colpa e pagano per tutti gli errori e i latrocini commessi per decenni da una classe dirigente avida e corrotta come poche altre sulla crosta terrestre. Saccheggi dei supermercati, scontri di piazza, decine di morti ammazzati, decine di suicidi per fallimento, aumento esponenziale della popolazione sotto la soglia della povertà (oltre il 45% dei 34 milioni di argentini, qualcosa come 16 milioni di poveri): questo è quello che resta dopo 10 anni di politiche dementi imposte dal FMI e attuate con l'entusiasmo dei primi della classe da un ceto politico preoccupato soltanto di rubare.

Eppure i "fondamentali" dell'Argentina non erano così devastanti: il rapporto tra stock del debito e PIL è ancora oggi sotto il 50%, un dato migliore non solo di quello italiano, ma persino meglio di Francia e Germania. Il fatto è che il trend di crescita è stato accelerato dalla fuga massiccia degli investimenti e soprattutto dei depositi bancari degli argentini stessi, o meglio di quegli argentini dotati di potere che hanno venduto all'estero tutte le principali proprietà e risorse del paese, per poi depositare all'estero i proventi stessi. Dai 60 miliardi di dollari di debito estero del 1990 si è saliti ai 132 miliardi del 2001, ma se oltre al debito statale includiamo anche i debiti delle province ed il debito privato si sale rapidamente ai 200 miliardi di dollari. A fronte di questo si calcola che almeno 100 miliardi di dollari di risparmio argentino abbia lasciato il paese nell'ultimo decennio, di cui almeno 15 nel solo 2001. La contrazione dell'economia mondiale ha fatto il resto: l'Argentina è in recessione da 42 mesi, ha cominciato a vacillare con la crisi del 1997/98 e non si è più ripresa. Russia e Brasile sono usciti dall'emergenza del 1998 con l'aumento del prezzo del petrolio e con la svalutazione (il real brasiliano ha svalutato del 130% tra inizio 1999 e ottobre 2001), mentre le esportazioni argentine hanno continuato a precipitare per la demenziale decisione di tenere il pesos ancorato alla convertibilità con il dollaro con un cambio alla pari. L'export argentino, pari al 20% del PIL, serviva per l'80% a pagare il servizio del debito, cioè quei 10-11 miliardi di dollari richiesti annualmente per mantenere la fiducia sul sistema paese.

Questo ha finito per distruggere la produzione "nazionale", perché la parte dell'economia in mano al capitale estero (Spagna, Francia, Italia, Usa) continuava a portare fuori gli utili senza reinvestirli, mentre la piccola e media impresa locale veniva strozzata dalla concorrenza internazionale. Si è così innescato un circolo vizioso inarrestabile e rapidissimo: la grande impresa multinazionale non investiva più, la piccola media impresa falliva e mandava a casa i lavoratori, la domanda calava ed il gettito fiscale non poteva far altro che scendere. Di fronte a questo scenario, la spesa pubblica è stata chiamata a svolgere un ruolo straordinario per sostenere i consumi ed una classe dirigente debole e corrotta, spaccata tra un governo di centro-sinistra ed una serie di governatori provinciali peronisti, non si è fatta pregare nell'aumentare in modo scriteriato la spesa clientelare. È così che il giocattolo si è rotto nelle mani del FMI, che ha cominciato a sospendere il rifinanziamento del debito, chiedendo delle misure sempre più draconiane per bloccare l'esplosione delle spesa pubblica. A settembre 2001 il FMI ha ancora concesso una tregua, ma a dicembre ha bloccato l'erogazione di una cifra pari a 1.3 miliardi di dollari, vitale per consentire a Buenos Aires il pagamento degli interessi in scadenza nel mese.

Tardivamente De la Rua ha varato il piano che ha innescato la rivolta e gli è costato la presidenza: un taglio del 20% della spesa per la finanziaria 2001, taglio di pensioni e salari pubblici, sequestro della liquidità dei fondi pensione, blocco dei risparmi in banca e limite per i prelievi settimanali.

Il FMI dunque sapeva quel che faceva, con la sua azione, e certo deve averglielo spiegato nei dettagli il super ministro dell'economia Cavallo, nei suoi ripetuti viaggi a Washington. Una figura chiave, esemplare del disastro comminato a tanti paesi "in via di sviluppo" da un nucleo di teorici del tutto simili ai tradizionali "apprendisti stregoni", convinti di poter sperimentare ricette economiche in paesi devastati socialmente come se si trattasse di simulazioni in laboratorio. Laureato ad Harvard, governatore della banca centrale argentina nel 1982, principale artefice del vastissimo ciclo di privatizzazioni argentine, uomo del FMI, attualmente sotto inchiesta per corruzione in connessione ad un traffico di armi di contrabbando con Ecuador e Croazia nel periodo 91-95, e come tale inibito a lasciare il paese, terrorizzato per la sua incolumità personale, Cavallo riassume bene ascesa e caduta del liberismo argentino.

Cosa può accadere ora? I peggiori incubi della nazione Argentina sono diventati realtà. La tripla "d" (default, dollarization, devaluation) si sono ormai concretizzati: il default (il fallimento) è stato formalmente dichiarato a fine dicembre, con l'impossibilità di onorare gli interessi su un prestito collocato in Italia (sono oltre 20.000 miliardi di lire i risparmi italiani investiti sull'Argentina); la dollarizzazione è nei fatti, con lo sganciamento del pesos e la fuga verso il dollaro come unica riserva di valore; la devaluation (la svalutazione) è stata accettata dal governo Duhalde nella misura del 40%, ma già viaggia nei fatti oltre il 70% e ci si aspetta che raggiunga il 120-130% appena i mercati avranno ripreso in pieno a funzionare liberamente. Il governo è sotto fortissima pressione da parte delle banche e dei capitali esteri, che non si rassegnano all'idea di aver perso definitivamente decine di miliardi di dollari.

Per la gente comune si tratta di inventarsi una sopravvivenza. Credo che faccia pensare il fallimento (non virtuale) di un'economia monetaria moderna, dove non esistono più circuiti di rifornimento naturali slegati dalla circolazione di denaro. La classe dirigente (che non è cambiata) può pensare di sopravvivere per il tempo necessario prendendosi una lunga vacanza all'estero finanziata dai fondi rubati ed imboscati in Svizzera o negli Usa. La classe media potrà tirare avanti per un po' ritornando a prelevare nelle banche i piccoli risparmi di una vita, ritirando i pochi, svalutatissimi pesos. Il grosso della popolazione invece ha perso tutto, la casa, i risparmi, il lavoro e non può fare altro che adattarsi in massa ad una strategia da clochard.

La chiave della rivolta è probabilmente proprio qui: la saldatura tra esasperazione della classe media e rabbia organizzata delle masse popolari. Tuttavia gli esiti della partita non sono ancora determinati: le fasi convulse che hanno portato alla destituzione di varie personalità sono in gran parte da ascrivere alla rissa e alle faide scatenate all'interno del partito giustizialista, ma la popolazione nel suo complesso ha dimostrato di non voler più sopportare supinamente ed ha espresso, con il movimento di massa, le priorità della nuova agenda politica. Si tratta dunque di garantire, in primo luogo, la riproduzione fisica della società, a scapito degli interessi dell'alta finanza. È probabile che la rivolta sociale di dicembre non rientri in breve tempo, mentre la classe politica tenterà di riprendere gradualmente il controllo delle piazze e riaprire poi il dialogo con i finanziatori internazionali, i veri padroni dell'Argentina oggi.

Se e quando il negoziato con il FMI ed i creditori esteri andrà a buon fine, potremo assistere ad una parziale riapertura di credito e l'ammissione a nuovi finanziamenti. A quel punto ci saranno forse le condizioni per l'inizio di una lentissima ripresa economica che, a costi sociali enormi, consentirà una graduale ricostruzione, in un quadro "democratico" non compromesso. Se questo non si dovesse verificare, non ci sarebbero molte alternative ad un ritorno dei militari o di un regime "forte" e anche le ultime lampadine di speranza finirebbero per spegnersi. Un destino che il popolo argentino ha già vissuto con tragedie inenarrabili.

Renato Strumia



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