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Da "Umanità Nova" n. 3 del 27 gennaio 2002

Guerra e razzismo
L'immagine del nemico

Se il potere di normalizzazione vuole esercitare il vecchio diritto sovrano d'uccidere, occorre che passi attraverso il razzismo.
M. Foucault

Anche lo stato di guerra permanente e globale, sponsorizzato come Enduring Freedom, con le sue articolazioni interventiste tricolori, non fa eccezione, confermando l'antico quanto stretto binomio guerra-razzismo.

Potrebbe, per certi versi, apparire anacronistico, ma è un aspetto delle attuali politiche del dominio tutt'altro che residuale, risultando ancora a tutti gli effetti un elemento centrale dell'ideologia imperialista, tanto che il razzismo si è ormai inserito stabilmente come meccanismo fondamentale di potere e di controllo.

Basta aprire infatti un giornale o una televisione, per constatare come all'immagine indeterminata del "nemico" e del "terrorista" si vanno ancora una volta sovrapponendo gli stereotipi razzisti dell'incivile, dell'arabo, dell'islamico... rivolti con, desolante approssimazione sottoculturale, a popolazioni e paesi diversissimi per storia, etnia e religione; forse l'unica differenza dal passato in tale collaudato paradigma è la ricaduta che questo ha nella politica interna nei confronti degli immigrati che diventano anche potenziale "quinta colonna" del nemico combattuto fuori dai confini nazionali.

In epoca moderna, la "deformazione" dell'immagine dei popoli vittime delle aggressioni militari italiane, basata su presunte superiorità culturali e razziali, ebbe probabilmente la sua maggiore e sistematica applicazione nella propaganda tardo-colonialista durante le guerre condotte, sotto i simboli della corona, della croce e del fascio, contro la Libia e l'Etiopia, motivate con la motivazione di civilizzare, educare e convertire dei popoli "selvaggi e barbari per natura" considerati pressoché alla stregua di animali-maschi e animali-femmine.

Malatesta infatti a tal riguardo nel 1914 osservava: "Ci dicono che colla guerra si propaga la civiltà. Se fosse vero, dovremmo in ogni modo prima pensare a diventar civili noi stessi, cioè dovremmo prima conquistar per noi la libertà ed il possesso della ricchezza (...) Portare in altri paesi la strage per offrir loro il capitalismo ed il regime parlamentare, per aggiungere i mali della civiltà nostra a quelli della civiltà loro sarebbe cosa da matti quando non fosse opera di delinquenti."

Dopo poco meno di novant'anni da quelle parole, possiamo vedere che le motivazioni delle attuali operazioni di polizia internazionali e guerre contro il terrorismo riproducono immutata l'essenza di simili tesi in cui il razzismo torna soprattutto nelle sue varianti pseudoculturali di matrice differenzialista.

Come intuito da Foucault negli anni Settanta, il riesumato mito della razza diviene quindi - in una società di normalizzazione - la condizione d'accettabilità della messa a morte e il razzismo risulta indispensabile come condizione per poter condannare gli altri a morte, rappresentando infatti la condizione in base alla quale si può esercitare il diritto d'uccidere.

Tale diritto non implica semplicemente l'uccisione diretta, ma anche tutto ciò che può essere morte indiretta: il fatto d'esporre alla morte o di adottare politiche economiche tali da moltiplicare per milioni di persone il rischio di morte, o più semplicemente l'annientamento sociale, la discriminazione, la chiusura.

D'altra parte, come si può ricorrere ancora alla guerra, sempre meno dichiarata ma non per questo meno micidiale, ed esporre i propri cittadini alla possibilità di morire per tali scelte politiche - come l'11 settembre ha dimostrato in modo esemplare - se non attivando il tema del razzismo assieme a quello del nemico che mette in pericolo la civile e pacificata convivenza?

Come dimostrano le incessanti stragi di questi mesi contro le popolazioni afgane, colpite dai bombardamenti delle democrazie più progredite e liberali, nella guerra ormai non si tratta più di distruggere semplicemente l'avversario politico o l'esercito nemico, ma di sterminare la "razza" avversa, quella sorta di pericolo rappresentato per la nostra "civiltà" da masse di diseredati ed affamati per i quali la nostra pace non è meno letale della nostra guerra.

E da questa esibizione terroristica nel decidere della vita e della morte, il dominio trae linfa vitale per continuare a perpetuarsi a spese dell'umanità.

KAS



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