Da "Umanità Nova" n. 3 del 27 gennaio 2002
Bombe ed economia
Neoliberismo: una vernice che si scrosta
Il National Bureau of Economic Research, ufficio federale di statistiche
economiche, ha stabilito che gli Stati Uniti sono in recessione dal marzo 2001.
Questo organismo ha stabilito che l'economia entra in recessione quando si
registra una diminuzione del prodotto interno lordo (PIL), per due trimestri
consecutivi. È un dato quindi che si basa sulla produzione effettiva,
non sul tasso di disoccupazione, sui profitti, sulla propensione alla spesa o
su qualsiasi altro indice che la fantasia degli statistici ha inventato per
scrutare nella sfera di cristallo del ciclo economico.
Con i dati sul PIL sono stati forniti anche le cifre del conto
dell'amministrazione pubblica USA: da un attivo 114 miliardi di dollari nel
secondo trimestre si è arrivati ad un passivo di 92, una diminuzione di
206 miliardi di dollari, pari al 2% del PIL.
Si tratta di fenomeni che si sono manifestati ben prima del tragico attacco
alle Torri Gemelle e al Pentagono: la riduzione della produzione si è
verificata nei mesi che vanno da aprile a settembre (per ora), mentre
l'esplosione del deficit federale si è manifestata nel terzo trimestre,
ed è difficile credere che questa esplosione si sia verificata nelle
ultime settimane di settembre.
Alan Greenspan continua a raffreddare gli entusiasmi per una possibile ripresa
dell'economia americana a breve scadenza. I vertici della Federal Reserve
(banca centrale USA) tentano di raffreddare gli entusiasmi della Borsa: le
quotazioni delle azioni e delle obbligazioni sono salite in previsione di un
rapido ritorno ad una forte espansione dell'attività produttiva e ad una
crescita dei profitti. Il rapporto fra il prezzo delle azioni e gli utili
generati dalle società è in questo periodo di 40 a 1, mentre alla
fine della recessione degli anni '70 era sotto 10 a 1 e dopo il crac dell'87 12
a 1 (la media storica è di 16 a 1).
Al contrario gli economisti dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico - raggruppa i paesi economicamente sviluppati) vedono chiari
segni dell'avvicinarsi della svolta: i superindici segnalano a novembre un
miglioramento rispetto al mese precedente (negli USA da 111,5 a 113,5;
nell'Eurozona da 109,3 a 110,0).
Come interpretare questi dati? Innanzi tutto che questa ridda di dati
contraddittori impedisce di avere un quadro, il più preciso possibile,
della situazione sia a livello nazionale che internazionale. Occorre fare una
scelta, e stabilire dei collegamenti. Il tipo di collegamento più
semplice è quello temporale: la crisi è iniziata ben prima della
strage delle Torri Gemelle, e i primi segni di ripresa si hanno successivamente
all'attacco USA all'Afganistan, che è iniziato il 7 ottobre. Tutto
questo, ovviamente, non è sufficiente per affermare che chi aveva
interesse a superare la crisi economica aveva interesse a provocare una guerra,
ma tanto meno è possibile stabilire dei nessi di causalità tra
l'attacco agli USA e la crisi economica. Se non ci sono prove che la guerra ha
consentito il superamento della crisi economica - gli economisti fanno di tutto
per nascondere questo legame -,
l'aggressione USA all'Afganistan ha certamente contribuito a diffondere un
senso di sicurezza fra i governi e i membri delle classi dominanti dei paesi
sviluppati.
Quanto durerà la crisi? I dati che ci vengono forniti sono
contraddittori: Greenspan ha a cuore che il piano di finanziamento dei grandi
gruppi per cento miliardi di dollari vada in porto, e quindi ha interesse a
dipingere la situazione più nera di quello che è. D'altra parte,
gli occhi degli esperti sono puntati sull'andamento del saggio di profitto (che
cos'è il rapporto prezzi/utili se non il buon vecchio saggio di profitto
espresso in altri termini?): la correzione che c'è stata non ha permesso
la ricostituzione di margini sufficienti al rilancio dell'accumulazione
capitalistica. Un rapporto p/u di 40 vuol dire un rendimento del capitale
investito del 2,5%, molto al di sotto del rendimento dei titoli di stato e
troppo vicino a quella soglia del 2%, comunemente ritenuta il livello a cui si
annulla la propensione al risparmio.
I fatti di questi ultimi tempi segnalano comunque un ritorno dei governi quali
soggetti della politica economica: la guerra, il piano di rilancio
dell'amministrazione Bush, l'espansione del deficit federale, l'uso del deficit
in funzione anticiclica proposto da diversi governi europei, lo stop alle
privatizzazioni, l'esigenza, a volte proclamata apertamente, altre suggerita
fra le righe, di ridurre il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo
valore, sono tutti passaggi che cancellano la pallida vernice neoliberista di
cui si erano ammantati i paesi industrializzati e la fanno apparire come un
mero espediente propagandistico.
Bisogna ricordare che il peggioramento delle condizioni di vita degli sfruttati
e il pesante intervento dello Stato in economia sono stati i tratti
caratteristici del fascismo, e a questi due aspetti torna a ricorrere un
capitalismo incapace di uscire dalle proprie contraddizioni.
Tiziano Antonelli
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