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Da "Umanità Nova" n. 4 del 3 febbraio 2002

Un mondo in armi

Se diamo uno sguardo panoramico alla mappa dei conflitti armati oggi nel mondo, ci possiamo rendere conto come la soluzione violenta ai problemi delle relazioni sociali interne a un territorio dato o tra sistemi di potere non conosca interruzioni nonostante lo strabismo dei media, che ce ne fa vedere un paio alla volta. Parlare di conflitti significa evitare un atteggiamento asettico che non fa trapelare come dietro a ogni conflitto, ci sono vittime innocenti, vite stroncate, esistenze martoriate per sempre, esperienze segnate sin nel profondo della psiche. Solo per esse vale la pena rilevare freddamente tristi e trite contabilità, nell'intento di sottrarle ad un destino cinico e barbaro sotto il tallone di ferro di élite dominanti senza scrupoli.

In questi giorni, sono alla ribalta l'Afganistan, il Kashmir conteso tra India e Pakistan e l'annosa occupazione in Medio Oriente. Eppure.

Eppure la Cecenia non si è pacificata, qualunque sia il senso da dare a questa espressione, che il più delle volte assume tale significato solo perché scompare dalla carta stampata o dai media di casa nostra. In Indonesia continuano le violenze secessioniste colmate di una venatura interreligiosa che mette a repentaglio l'unità politica della nazione musulmana più numerosa al mondo. E gli scontri nelle Filippine non sono da meno, sia perché la guerriglia fondamentalista di Abu Sayyaf è strettamente collegata ad Al-Quaida, secondo la lista della Casa Bianca, sia perché il paese è una roccaforte occidentale in piena frontiera pacifica, segnata dalla progressiva egemonia cinese che avanza su più fronti (politici, economici, commerciali) con ripercussioni interne - la questione tibetana ormai seppellita, il caso spinoso degli Uiguri turcofoni musulmani nello Xianjang, il contenzioso simbolico con Taiwan, il controllo del mare asiatico conteso al Giappone.

E senza dubbio un conflitto perenne è quello dello Sri Lanka, dove da decenni si combatte una guerra di indipendenza che ha portato centinaia di migliaia di tamil (ma anche di cingalesi) a sfuggire all'estero (a Palermo, ad esempio, è la comunità straniera più numerosa e compatta).

Nel cuore dell'Europa, raffreddati i bollori nazionalistici con derive ormai sterili (paesi baschi, Irlanda del nord), sopravvive la questione dei Balcani come un conflitto a proiezione ventennale che di tanto in tanto si accende come un vulcano silente ma ancora in attività.

Se proseguiamo in questa breve panoramica non esaustiva, l'Africa appare come un continente scomparso, alla ribalta solo per la questione delle vittime falciate a milioni dall'Aids e da ogni complicazione sanitaria banale le quali, in presenza di immunodeficienze e di scarse infrastrutture sanitarie, divengono mortali. Eppure è in corso la I guerra mondiale africana, che vede coinvolti la RD del Congo, Ruanda, Burundi, Uganda, Angola, a seguito del genocidio tutsi del 1994 effettuato sotto gli occhi delle truppe occidentali Onu scappate appena in tempo per non voler vedere i massacri.

Sempre in Africa il conflitto in corno d'Africa è appena sopito ma non risolto: il contrasto Etiopia-Eritrea e la situazione di acefalia politica in Somalia ne sono i contraccolpi più visibili, assieme alla corsa per accaparrarsi gli aiuti umanitari. E che dire della Sierra Leone, il paese con il più alto numero di bambini soldato? E come non parlare del conflitto in Nigeria, enorme federazione di etnie e popolazioni diverse, anche con fedi religiose diverse, ma tutte accomunate dall'enorme ricchezza del petrolio in mani estere le cui briciole ricadono sulle élite al potere ma non sui cittadini?

Infine, trasvolando sull'Oceano Atlantico, sembra che l'America latina, non conoscendo più ennesimi golpe militari, la situazione sia tranquilla eccetto che per i problemi economici in Argentina. Eppure non sembra che i 30mila morti in Colombia valgano meno degli altri, così come tacitata è la questione indigena che uccide "culturalmente" tanto quanto uccide per inedia, per fame, per sete, per sradicamento dalle terre ataviche.

Il conflitto è il sale della vita, impossibile pensare ad un mondo senza conflitti, ma esattamente per la ragione opposta per cui sorgono i conflitti armati: la parola alle armi è la strategia statuale per sopprimere il conflitto sociale che alimenta la dialettica politica entro una nazione. Lo scontro tra interessi forti è sempre un conflitto sulla pelle della popolazione, che diviene oggetto e posta in palio per la sottomissione di una élite al governo nei confronti di un'altra. Le armi non risolvono il conflitto, lo stravolgono dandone una deriva pericolosa perché interminabile, legandola ai rapporti tra formazioni di sovranità che aspirano a perpetuare il loro dominio oppure a sostituirsi a un'altra uscita sconfitta. Certo, ci sono motivi endogeni nella maggior parte dei conflitti oggi in corso sulla terra (una quarantina, secondo gli osservatori internazionali), ma la mappa rivela anche un interesse forte al conflitto armato in proiezione geopolitica: il controllo delle ricchezze di base per gestire uno stato, e precisamente il controllo delle fonti energetiche.

Se osserviamo la mappa riassunta poco sopra, e la leggiamo in filigrana sovrapponendola con la mappa dei giacimenti di petrolio e di gas, vedremo una ragione forte per quanto avviene nell'area afgana e dell'ex Unione sovietica, ma anche del mar cinese, dell'Africa sub-sahariana occidentale, del sempiterno medio oriente e del centro America (il cui Plan Puebla Panama di origine statunitense e di applicazione messicana sconvolgerà la regione negli anni prossimi bypassando la rivolta indigena in Chiapas e altrove).

Non da meno se alla mappa in filigrana delle fonti energetiche passiamo alle fonti idriche: dal destino infausto dei Curdi nell'area turca, al conflitto palestino-israeliano, dalle valli dell'India alle risorse idriche in centro Africa, l'acqua sta diventando il perno di una serie di conflitti per la vita il cui controllo porterà formazioni di dominio a rendersi sovrane sui destini di tanti popoli al di là delle divisioni tra frontiere nazionali.

Infine, buona parte dei conflitti in Congo, in America latina e nell'Asia orientale può essere letta attraverso il filtro del controllo del sottosuolo e dei mari: le risorse di minerali, pietre preziose e legno rappresentano una chiave di volta per alimentare un commercio di armi funzionale alla perpetuazione di élite militarizzate la cui economia criminale sostituisce non tanto paradossalmente l'economia quotidiana civile che la globalizzazione penalizza favorendo appunto un surplus finanziario da reinvestire in business dai facili e immediati profitti. E in tal senso, la dimensione criminale, magari poi legalizzata come nell'area balcanica, assume per la prima volta nella storia un peso quasi pari a quella legale.

Salvo Vaccaro



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