unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n. 4 del 3 febbraio 2002

Israele/Palestina
Una tragedia senza fine

Nella tragedia senza fine che colpisce l'esistenza di milioni di palestinesi e israeliani, si stanno muovendo alcune dinamiche che sembrano preludere, se mai fosse possibile, a un ulteriore inasprimento delle condizioni di vita di quelle disgraziate popolazioni.
La pluridecennale conflittualità che segna la storia di quel piccolo lembo di terra sta, infatti, raggiungendo livelli che non pensavamo neppure immaginabili. Nonostante tutto. Da una parte e dall'altra, con responsabilità identiche, le classi al potere vanno giocando una criminale partita a scacchi sulla pelle dei propri sudditi, esasperando e rendendo impraticabile una qualsiasi soluzione ai problemi che sono all'origine di ingiustificabili sofferenze.
La criminale politica di quel delinquente caratteriale che risponde al nome di Ariel Sharon (non si dirà mai troppe volte che il pretesto di questo nuovo conflitto fu dato dalla sua provocatoria visita alla Spianata delle moschee) trova una sponda speculare nelle eterogenee dirigenze che si spartiscono il consenso, e l'esaltata esasperazione, del popolo palestinese. Le forze "moderate", se davvero ce ne sono, rinculano drammaticamente, incapaci di offrire alternative credibili al gioco al massacro. La politica internazionale, dominata da un imperialismo frenetico e sempre più aggressivo, si schiera apertamente a fianco di chi pensa che sia a portata di mano la "soluzione finale". Costi quel che costi.

In questo ultimo anno la repressione militarista dell'esercito israeliano si è fatta ancora più pesante (al peggio, purtroppo, non c'è limite), sconvolgendo la quotidianità di milioni di palestinesi costretti a vivere come bestie in gabbia in città e in territori sovraffollati e privi delle risorse essenziali. Schiacciato da una politica del terrore che non lascia spiragli di emancipazione, questo popolo è sospinto, è costretto alla rivolta disperata e suicida, e i giovani esasperati, pronti a immolarsi a vent'anni sull'altare dell'odio e della vendetta, diventano la macabra metafora del suicidio collettivo di un'intera società.
Al tempo stesso, la prevedibile risposta terroristica della miriade di sigle e organizzazioni paramilitari che si contendono il controllo dei territori, sembra legittimare, di fronte a una opinione pubblica mondiale incapace di riflettere, l'inasprimento del controllo israeliano. E il popolo d'Israele, attanagliato nel paranoico terrore provocato da autobus, ristoranti, scuole e mercati che esplodono quotidianamente, è sempre più vicino al fanatico demagogo di turno che lo illude di poter schiacciare il mostro. Diffidente, impaurito, represso, vendicativo, non accetterà i limiti posti dalla ragione, ma esalterà nell'irrazionale di massa le più aberranti farneticazioni e le misure repressive che gli verranno proposte. Il patrimonio culturale che affonda le radici nel desiderio di emancipazione che caratterizzò la nuova società israeliana, svanisce mestamente senza lasciare traccia. E questa è una perdita irreversibile non solo per il futuro di pace dei due popoli, ma per tutti noi.

E poiché le disgrazie non vengono mai sole, ecco che l'imperialismo statunitense torna a interessarsi "del problema arabo-israeliano", e procede, con cinica ipocrisia, sulla strada della sua definitiva soluzione. Risolto infatti, senza troppi traumi, il conflitto afgano (o almeno così pare), lo zio Sam si sente di nuovo libero di manovrare nell'area mediorientale, e ricomincia a distribuire a piacimento le carte del mazzo. I suoi favori, le sue opzioni, le sue cesure, tornano ad essere l'ago della bilancia e si prospettano nuovi equilibri, più funzionali al controllo di mercati e materie prime. La fazione "dialogante" dell'Autorità palestinese (perché tale è stato Arafat con il suo seguito) pare scaricata una volta per tutte; i settori della società israeliana disposti a cercare soluzioni di compromesso perdono ogni referente internazionale; gli stati arabi, i naturali "fratelli" del popolo palestinese, vuoi per debolezza, vuoi per opportunismo, se ne lavano le mani. E così il campo rimane aperto ad ogni forma di brutale, inutile, cieca violenza. Con conseguenze facili da immaginare.
Non siamo tanto ingenui da non capire che gli interessi economici giocano una parte importantissima, scatenante, nel dramma quotidiano di questa terra, ma non siamo neppure tanto "materialisti" da credere che sia solo l'Economia a condurre il gioco. Giorno dopo giorno, attentato dopo attentato, bombardamento dopo bombardamento, governi e gruppi di potere stanno gettando un'intera società, altrimenti così ricca di storia e di cultura, in un delirio irrazionale. Ben sapendo che l'irrazionalità di massa è il puntello più forte del loro potere.
E assurdamente, pregiudizi razziali e religiosi, tanto falsi in cielo quanto idioti in terra, ricompaiono con prepotenza per affermare i loro infami diritti. Ma davvero si può pensare che esista una differenza genetica fra un cittadino arabo ed uno israeliano? Davvero ha senso il tabù che impedisce loro di mangiare lo stesso piatto, seduti alla stessa tavola, e di salire con tranquillità sul medesimo autobus che li porta, entrambi, a lavorare? Esiste forse una legge divina, che stabilisce che questi due popoli, nati nella stessa terra, su quella terra non possono vivere in pace? Ma sono proprio differenze genetiche, razziali, quelle che li dividono? Allora è vero che l'umanità è divisa per razze e che in nome delle razze è permesso ogni delitto?
La tragedia del popolo ebraico sotto il nazismo è lì a ricordarci che questo non è vero e che un altro mondo è possibile, deve essere possibile. Ma questa tragedia, proprio perché nata dalla profonda irrazionalità di masse fanatizzate, è sempre dietro l'angolo, e non sarebbe la prima volta che una vittima si trasformi in carnefice. In questi giorni, in cui si ricorda il più grande delitto del novecento, la shoah, penso che il migliore omaggio alla memoria dei milioni di ebrei, degli zingari, degli omosessuali sterminati nei lager nazisti, lo rendano i compagni di lingua ebraica ed araba che insieme, nella loro terra, hanno dato vita al Gruppo anarchico del Mediterraneo sud orientale. Forse la loro capacità di intervento sarà modesta e inadeguata, ma il significato della loro scelta è la dimostrazione che un mondo nuovo è davvero possibile.

Massimo Ortalli



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org