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Da "Umanità Nova" n. 5 del 10 febbraio 2002

Quando il "fondo" va a fondo
Il caso Enron e le nostre pensioni

Il fallimento della Enron giunge in un momento quanto mai tempestivo.
Mai come in questo momento abbiamo subito un martellamento così insistente sulla necessità di scordarci la pensione pubblica e costruire finalmente il secondo o il terzo "pilastro" previdenziale. Va da sé che i fondi pensione integrativi devono fare affluire le proprie risorse (che si preannunciano ingenti) sui mercati finanziari in crisi, per poterli risollevare e rilanciare, nonché per finanziare le imprese costrette dal progetto a rinunciare in futuro al TFR dei dipendenti.
Il TFR "maturando" andrebbe così ai fondi pensione, anche senza il consenso esplicito del lavoratore, con la clausola del "silenzio-assenso". Il lavoratore si troverebbe così privato della possibilità di decidere dove tenere il gruzzolo destinato alla sua liquidazione.
Oggi le aziende usano il TFR per finanziarsi a basso costo e il lavoratore se lo vede remunerato pochissimo (il 75% dell'inflazione + 1 punto), domani le aziende si faranno finanziare dai fondi pensione a costo zero ed il lavoratore non avrà più alcun rendimento certo: come dire, dalla padella alla brace.

Tuttavia il caso Enron invita a fare qualche riflessione disincantata su questo futuro non proprio allettante. Come noto Enron era la settima azienda Usa per fatturato (100 milioni di $ l'anno), un caso esemplare della crescita economica esponenziale degli anni '90. La brillante idea alla base del boom dell'azienda era stata quella di sfruttare la deregulation del mercato dell'energia e del gas, passando da produttore a fornitore su scala globale. La presenza della Enron si era così allargata al mondo intero, con un'intensissima attività di trading in una svariata molteplicità di settori, dall'elettricità al gas, dall'acqua alla carta, per arrivare ad ogni speculazione possibile sul mercato dei futures sulle materie prime.
Connaturale a questa attività sembrava dunque l'utilizzo degli strumenti più "innovativi" della finanza speculativa per coprirsi dai rischi nelle oscillazioni dei prezzi, e se possibile guadagnarci. In questi casi, quasi sempre, l'appetito vien mangiando.

L'inizio della fine si può far risalire al 1997, quando vennero costituiti due fondi speculativi alle isole Cayman. Poi il gioco ha preso la mano ai dirigenti Enron, che è arrivata ad avere 881 sedi nei paradisi fiscali, di cui 693 alle isole Cayman. Il gioco era semplice: gli utili finivano nelle casse della Enron per far figurare utili fittizi, i debiti finivano in società scorporate di cui Enron aveva la minoranza, ma che garantiva in modo illimitato con il proprio patrimonio.
In questo modo la società ha finito per dichiarare 1.3 miliardi di dollari di utili fittizi, mentre in realtà l'indebitamento complessivo di cui Enron deve rispondere ammonta ad oltre 20 miliardi di dollari, di cui oltre 10 forniti dalle banche. Innumerevoli sono stati i casi di irregolarità contabili, amministrative e fiscali commesse dai dirigenti, un vero manipolo di delinquenti finanziari che hanno tentato fino all'ultimo di difendere il proprio fortilizio, mentre vendevano sul mercato a piene mani tonnellate di azioni (si parla di 17 milioni di pezzi), prima dell'inevitabile crollo.

Lo scandalo Enron colpisce ad ogni livello: a livello bancario, perché questi 10 miliardi di $ di debito sono spalmati su 70 primarie banche mondiali, dal Canada all'Australia, passando per l'Europa, con il carico maggiore, naturalmente, sulle banche americane, JP Morgan e Citibank in testa; a livello politico, perché Kenneth Lay, presidente Enron, è amico e principale finanziatore della campagna presidenziale di Bush Jr., mentre la dirigenza della società (texana) era "organica" all'amministrazione, aveva stilato il piano energetico nazionale ed era quindi non vicino, ma "dentro" alla stanza dei bottoni; oggi a Washington ci sono 7 commissioni parlamentari d'inchiesta sull'operato della Enron; a livello federale, perché vengono messi in ridicolo i capisaldi del sistema di vigilanza contabile di tutte le autorità di controllo (Sec, Fed, Cftc, ecc.), facendo emergere la cosciente decisione, presa il 6 febbraio 2001, dalla Arthur Andersen (il revisore contabile della Enron) di coprire i crimini finanziari della società per non perdere un contratto annuo da 100 milioni di dollari, arrivando fino alla distruzione materiale, in ottobre, dei documenti richiesti dalla Sec, come nelle più sperimentate cosche mafiose; a livello finanziario, perché il crack Enron rappresenta una mina vagante per Wall Street e soprattutto per l'intero sistema dei fondi pensione integrativi, i piani 401k, che negli Usa hanno 42 milioni di soci e gestiscono 1.800 miliardi di dollari.
Questo è forse il nodo che più ci interessa: perché 15.000 dei 21.000 dipendenti Enron avevano investito in un fondo pensione carico di azioni Enron (si parla di circa 2/3 del patrimonio), che dal valore di 90 dollari di un anno fa sono scese a pochi centesimi e poi, il 15 gennaio 2002, tolte dal listino di borsa. Questi lavoratori sono completamente sul lastrico, perché oltre a perdere il posto di lavoro in seguito al fallimento della società, hanno perso tutto ciò che avevano come liquidazione o pensione. Il loro caso non è così isolato, tutte le aziende della net. economy hanno sperimentato un crollo spaventoso e molte, anche grandi, sono già fallite o in procinto di farlo. Eppure almeno la metà dei lavoratori americani hanno piani di previdenza privata, su cui versano quote dal 5 all'8% della propria paga, visto che la "social security" (la versione americana dell'Inps, finanziata da contributi obbligatori al 12,4%) fornisce alla fine del periodo lavorativo una pensione da morti di fame.

In sostanza, una situazione molto simile a quella che si vuole costruire anche in Italia. Si può dire che un fatto del genere in Italia o negli altri sistemi previdenziali non può accadere: soltanto un matto può pensare di mettere "tutte le uova nello stesso canestro" e, da sempre, investire su un singolo titolo azionario per garantirsi un reddito pensionistico è quantomeno avventato. Tuttavia la forza della "community" aziendale può essere fortissima, soprattutto quando le cose vanno bene, e non sempre il singolo lavoratore ha facoltà di scegliere: spesso il datore di lavoro accetta di versare i contributi a sua volta, soltanto se ne trae un vantaggio personale, cioè se può usare il fondo pensioni aziendale per finanziarsi. È serissima dunque la questione dei conflitti d'interesse in questo campo, e basta pensare all'incarognimento con cui la Confindustria segue il dibattito sul TFR per capire quanto sia corposa la posta in gioco.

Esistono naturalmente sistemi di controllo e filtri normativi: i fondi italiani sono strettamente regolati dalla legge, è impossibile la sovraesposizione su un singolo titolo, la separazione dei ruoli di gestione, amministrazione e depositario dovrebbe tutelare il patrimonio degli iscritti, la possibilità di scegliere individualmente il comparto e il profilo d'investimento dovrebbe poi dare la possibilità al lavoratore di "cucirsi" un vestito su misura. Ma è innegabile che la pensione futura verrà a dipendere dalla volatilità dei mercati, dalla solidità del sistema finanziario nel suo complesso e dei singoli attori in esso presenti (pensate solo a quante banche in liquidazione coatta amministrativa abbiamo avuto negli ultimi 20 anni, dal Banco Ambrosiano alla C. R. Prato, o quante volte il fallimento sia stato evitato solo con l'intervento dei fondi pubblici, come nel caso Banco di Napoli e Banco di Sicilia, oppure alle crisi latenti di Banca di Roma, Bipop, ecc.).
Non si tratta di avere rimpianti per la situazione passata: i lavoratori dipendenti hanno pagato per decenni contributi previdenziali su cui non avevano alcun effettivo controllo e che sono stati usati per fini impropri, dalla cassa integrazione delle imprese in crisi, all'assistenza sociale, dalle pensioni di categorie che non avevano mai pagato nulla ad interventi ad hoc per salvare qualche padrone amico del governo. L'evoluzione demografica rende inevitabile una riforma, ma le modalità che questa riforma assume hanno un impatto devastante sui diritti pregressi.
Il contributivo permette forse di accantonare risorse più controllabili e destinate ad uno scopo preciso, tuttavia si ha l'impressione sgradevole che, alla fine, il reddito disponibile per il lavoratore che andrà in pensione venga seccamente decurtato e la ripartizione del reddito fortemente modificata in senso anti-egualitario.

Possiamo sintetizzare in breve l'evoluzione dei sistemi previdenziale degli ultimi 150 anni: dal mutualismo ottocentesco, basato sulla solidarietà autogestita, si è prima passati alla statalizzazione dei sistemi di sicurezza sociali (da Bismark a Beveridge); adesso si va verso un ruolo "sussidiario" dello stato ed un ritorno al "contributivo individuale" organizzato da banche e assicurazioni, cioè le imprese capitalistiche che devono fare "credito" all'impresa, senza disdegnare la speculazione (da Maurizio Sella a George Soros). Un futuro da trader fortunati, per alcuni, e un rischio serio di indigenza per quote molto ampie della popolazione lavorativa.

Renato Strumia



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